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Malcolm & Marie (2021)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 10 mar 2021
  • Tempo di lettura: 7 min

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Malcolm & Marie

USA 2021 dramma 1h46’


Regia: Sam Levinson

Sceneggiatura: Sam Levinson

Fotografia: Marcell Rév

Montaggio: Julio Perez IV

Musiche: Labrinth

Scenografia: Michael Grasley

Costumi: Samantha McMillen, Law Roach


Zendaya: Marie

John David Washington: Malcolm


TRAMA: Un regista torna a casa con la sua ragazza dopo la première del suo ultimo film mentre attende quello che sarà sicuramente un imminente successo critico e finanziario. La serata prende improvvisamente una svolta quando le rivelazioni sulle loro relazioni iniziano ad emergere, mettendo alla prova la forza del loro amore.


Voto 7,5

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Cosa spinge un regista a scrivere e girare un film, quanto ci mette delle sue storie personali, come accetta i giudizi dei critici a seconda della loro etnia, quanto influiscono i problemi razziali nelle recensioni della critica e quanto incidono su come rappresentare le emozioni che l’artista ha intenzione di far arrivare al pubblico, come interferiscono i rapporti affettivi e sessuali nella stesura di uno script, quanta vita personale e con quale sincerità questa arriva sullo schermo. E così discorrendo, quasi all’infinito. Eppure, i personaggi son solo due, come i colori della fotografia, totalmente in bianco e nero, più che mai black and white. Certo, la pellicola – ancora più che mai, di questo materiale in 35 mm. -, ha anche le tonalità e le nuance dei vari grigi tra i due colori, ma fondamentalmente sono solo due, il resto è una miscela più o meno addensata. Due, e tosti, innamoratissimi, agguerriti, attratti, attraenti, orami benestanti dopo i successi artistici, neri, intelligenti… Non mancano di nulla e la loro bellissima e moderna villa in aperta campagna lo dimostra, ma a livello emozionale hanno ancora un lungo cammino da percorrere, se avranno amore e pazienza, l’uno verso l’altra e viceversa.

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Malcolm e Marie sono appena rientrati dalla première del film di cui l’uomo è il regista e sceneggiatore e ben presto, dopo una partenza ad exploitation musicale con un brano di James Brown, Down and Out in New York City, che scatena non solo la verve di Malcolm ma anche la nostra (la canzone è davvero irresistibile), ha inizio una guerra a tutto campo fatto di svariate piccole e brevi battaglie dialettiche ed emotive tra i due, senza alcuna esclusione di colpi (bassi? alti? ferocissimi di sicuro!) che partono a causa di pretesti solo apparentemente insignificanti, che invece producono tanto astio, pur se momentaneo, che feriscono entrambi, fino all’esausto. Di lui si conosce ben poco, se non le tante avventure amorose e semplicemente sessuali e occasionali vicende che lo hanno portato a incontri con altre donne. Di Marie si scopre il passato difficile di tossicodipendente man mano che le discussioni, veri e propri asperrimi litigi, generano rivelazioni del periodo difficoltoso, delle ricadute, delle bugie inevitabili, ma anche della pazienza dell’uomo per starle accanto nonostante le asprezze dei momenti. Si rappacificano commentando la serata e le reazioni del pubblico, in particolar modo dei critici presenti in sala, la maggior parte dei quali è bianca e, a sentire Malcolm, danno sul film giudizi del cavolo perché troppo influenzati dal fatto che i protagonisti dell’opera sono neri, sempre condizionati dal colore della pelle a prescindere da ciò che realmente il cinema voglia rappresentare. Il punto di maggior scontro è però originato dall’amarezza provata da Marie per non essere stata ringraziata dal filmmaker nel lungo discorso in cui ha menzionato tutti, tranne lei: un errore, una dimenticanza che non gli perdona.

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Marie è stata a pochi centimetri da diventare una buona attrice, avrebbe anche potuto essere lei la protagonista del film, in fondo, anche se inizialmente rinnegato, era di lei che si parla nella trama, è lei la donna tossica al centro dello schermo, è lei che avrebbe potuto meglio di chiunque altra recitare quella parte. È lei che ha vissuto sulla pelle in maniera viscerale la tragedia emozionale raccontata. Chi meglio di lei? Eppure, le rinfaccia Malcolm, quel provino lo aveva fatto ma si era mostrata incerta e scarsamente incisiva. In uno dei momenti topici dei loro aspri diverbi Marie piange e recita un pezzo drammatico del film, sbalordendo il suo compagno: quindi era in grado di saperlo interpretare, accipicchia! Perché non è stata così determinata al provino? È uno degli innumerevoli momenti di alti e bassi che la coppia - formata da due persone di forte carattere e inarrendevoli nelle dispute violente che non poche volte provocano volontariamente per mettere alla prova e voler far male scientemente alla controparte – affronta con vigore durante tutta la durata del film. È più di una seduta psicoanalitica, è più di un regolamento di conti, è molto di più di un definitivo chiarimento che possa servir loro per il futuro: è l’azzannarsi di due belve affamate e assetate di sangue, che non risparmia nulla all’altro, che finalmente dice quello che covava da tempo nel profondo dell’anima e della mente. Difficile che rimanga qualcosa di non detto o di dimenticato alla fine: tutto è sgorgato esternamente, ogni piccolo residuo vagante viene sputato a pochi centimetri dal viso dell’altro. Come un mal di stomaco, tenuto a bada da troppo tempo, che ha deciso di svuotarsi completamente. Eppure si amano, si desiderano, vogliono vivere la vita assieme, ma stasera, davanti allo schermo per vedere realizzato il film con due attori che nella realtà sono proprio loro due, davanti a quello schermo i due, ma in special modo Marie – che covava questi pensieri da tempo -, hanno scoperchiato le emozioni e sotto la pressione e la provocazione dell’altro si son detto tutto. Proprio tutto. Come avevamo visto accadere tra Marianne e Johan in Scene da un matrimonio (Ingmar Bergman), tra Nicole e Charlie nel recente Storia di un matrimonio di Noah Baumbach (recensione), ma il film che mi ha ricordato maggiormente è Chi ha paura di Virginia Woolf? del grandissimo e mai sufficientemente apprezzato Mike Nichols, in cui Martha e George – due sovrannaturali Elizabeth Taylor e Richard Burton – sbraitano ogni cattiveria l’un l’altra, in modo selvaggio e cattivo, alimentato dai vari bicchieri di alcol che tracannano tra insulti e isterismi.

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Come capita in questi casi, tra Malcolm e Marie (s)corrono confessioni recondite e falsità, le prime e le seconde dette per ferire, per sopraffare, per sconfiggere, e dopo un breve ripensamento, un po’ per riprendere fiato (lui più di una volta ansima svuotato dopo la sfuriata), un po’ per tatticismo, il battibecco riprende con vigore rinnovato. Per fare tutto ciò servivano due interpreti disposti a esprimere la cattiveria e l’asprezza che forse un attore non sa neanche di possedere, due persone da palcoscenico che devono trovare dentro l’energia necessaria per essere credibili e John David Washington e Zendaya si sono dimostrati incredibilmente all’altezza delle esigenze interpretative. Il massiccio figliuolo di Denzel ha dato fondo al suo notevole vigore come un esperto attore drammatico, gonfiando la gola alla pari del rilevante fisico, mentre la bella Zendaya è stata (per me) letteralmente una sorpresa. Non la conoscevo bene e mi ha sbalordito per la precisione dell’intonazione, della espressività mutevole (quando Marie era sincera e quando voleva mistificare la verità al suo uomo), della gestualità sempre volutamente sensuale. Ha mostrato una maturità sorprendente, fino al punto di giocare quasi alla parodia del suo personaggio in Euphoria, la serie TV di grande successo con cui si è rivelata con lo stesso regista. Inoltre, è quasi un colpo di scena vederla nella seconda parte spogliata dall’elegantissimo abito luccicante, in slip e canottiera ma soprattutto senza trucco: la donna si è denudata dalle apparenze, ha fatto cadere la maschera ed è lì, scoperta a combattere a mani nude, con la sola propria bellezza al naturale contro il suo uomo che non l’ha ringraziata. Due interpreti che hanno dato fondo alle loro qualità e che hanno marchiato il film per bravura e duttilità. Che non siano due attori abituati a questo genere di dramma è scontato, ma sicuramente hanno aperto una nuova strada alla loro carriera. L’altra persona che merita elogi è il regista Sam Levinson, figlio del noto Barry. Egli non ha nascosto – parallelamente al film – che lo spunto è autobiografico: alla première di Assassination Nation (del 2018, sua seconda regia) si dimenticò di ringraziare la moglie Ashley. Ne discussero la sera stessa, senza alcuna scenata, però a lui rimase addosso un senso di colpa. Era ossessionato: voleva capire come può succedere che anche quando qualcuno è così importante nel processo di costruzione di un film, si scordi di riconoscerglielo. Cosa significa e quali sono le conseguenze di un evento simile su entrambi? Sembra proprio il prologo della trama! Da qui l’idea di investigare il rapporto tra un regista e la sua compagna, che tornano a casa dopo la première dell’ultimo film di lui, fortemente influenzato dal loro legame. Ottima regia che ha assecondato e guidati i due unici attori in scena. E verrebbe da dire sul palco, perché è perfettamente anche una bellissima pièce teatrale, dato che si svolge interamente nella bella casa dei due.

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Un meritato appunto va fatto per i brani utilizzati continuamente da Levinson, straordinarie musiche jazz e R&B (come il primo e su accennato, funkizzato da quel fenomeno che fu James Brown), come In a Sentimental Mood (scritto e diretto da Duke Ellington e suonato in maniera impareggiabile da John Coltrane) e tanto altro, ma interamente di musicisti neri di black music, la vera musica dell’anima. Un capolavoro di colonna sonora, perfettamente integrata nel contesto. Curiose e funzionali le varie menzioni di film importanti della storia del cinema quando Malcolm fa riferimenti a Spike Lee, Barry Jenkins, William Wyler e persino Gillo Pontecorvo (“uno stracazzo di ricco ebreo italiano, perché cazzo credi che sentisse tanta affinità con i guerriglieri mussulmani algerini da girare La battaglia di Algeri?”).

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Molto interessanti poi alcune particolarità accompagnano la realizzazione.

La differenza di età di 12 anni tra John David Washington (35) e Zendaya (23) ha causato alcune polemiche. Zendaya ha confutato le critiche dicendo che le persone "non sono pronte" a vederla da adulta.

Le riprese del film, scritto in soli sei giorni, si sono svolte in gran segreto dal 17 giugno al 2 luglio 2020 in piena pandemia a Carmel, in California, presso la Caterpillar House, gioiello architettonico in legno e vetro dove è stato possibile seguire tutti i necessari protocolli di sicurezza anti-Covid.

Sul set blindatissimo la giovane Zendaya, anche coproduttrice, si è anche occupata dei propri abiti, del trucco e delle acconciature.

Il nome Malcolm ha molteplici significati nella vita di John David Washington. Suo padre Denzel ha interpretato notoriamente Malcolm X nel film di Spike Lee del 1992 (in cui è apparso un giovane John David). Inoltre, ha un fratello Malcolm, che prende il nome dal ruolo del padre.

Malcolm fa riferimento più volte a un critico che dice di essere "il prossimo Spike Lee". John David ha lavorato con Spike Lee in Malcolm X e BlacKkKlansman (2018).

In definitiva un film molto impegnativo da seguire (i sottotitoli corrono velocissimi come succede sempre con i film densi di discussioni e litigi) e interessantissimo, dal primo all’ultimo minuto. Bravi tutti!


 
 
 

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