Memorie di un assassino (2003)
- michemar

- 18 set 2020
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 20 ago 2023

Memorie di un assassino
(Salinui chueok) Corea del Sud 2003 thriller 2h11’
Regia: Bong Joon-ho
Sceneggiatura: Bong Joon-ho, Kim Kwang-lim, Shim Sung-bo
Fotografia: Kim Hyung-ku
Montaggio: Kim Sun-min
Musiche: Iwashiro Taro
Scenografia: Ryu Seong-hie
Costumi: Kim Yu-sun
Song Kang-ho: det. Park Doo-man
Kim Sang-kyung: det.Seo Tae-yun
Kim Roe-ha: det.Cho Yong-gu
Song Jae-ho: serg. Shin Dong-chul
Byeon Hee-bong: serg. Gu Hee-bong
Ko Seo-hie: Kwon Kwi-ok
Park No-shik: Baek Kwang-ho
Park Hae-il: Park Hyeon-gyu
Jeon Mi-seon: Kwok Seol-yung
TRAMA: 1986: una giovane donna viene rinvenuta stuprata e uccisa nei pressi di un villaggio di provincia. Un paio di mesi dopo si susseguono altri stupri e omicidi in circostanze simili. Il detective locale, Park Doo-man, viene coadiuvato da Seo Tae-yUn, giunto appositamente da Seoul, ma le indagini non decollano.
Voto 8

Chi era Bong Joon-ho nel 2003 in Italia? Praticamente un egregio nessuno e se non si fosse fatto conoscere con il curioso e allegorico Snowpierce (recensione) non saremmo andati a scavare all’indietro nella sua filmografia, per scoprire così un buonissimo Madre ma soprattutto questa sorprendente opera, non prima ma quasi. Che poi sarebbe esplosa la sua fama con l’Oscar e una pioggia di premi in tutti i festival del mondo con l’esplosivo Parasite (recensione) è parso, agli occhi di oggi, una conseguenza inevitabile dovuta alla naturalezza con cui questo uomo coreano realizza le sue storie convincenti. Storie mai banali, mai ordinarie, raccontate con uno stile molto personale sempre distante da quello tradizionale anche se densamente colorato dallo spirito orientale. È stata la notorietà degli Oscar che ha spinto poi tutta la critica e i distributori internazionali a scavare nel passato delle opere del regista sceneggiatore ed è così che abbiamo scoperto un gioiellino come questo, tanto che l’uscita in Italia è avvenuta con diversi anni di ritardo (un fenomeno che si è ripetuto da noi per l’altra scoperta di questi anni: Yorgos Lanthimos). È un giallo intriso di quel naturale umorismo, a volte ironico se non addirittura sadico, che pervade ogni pellicola del nostro ma caratterizzato dalla presenza inafferrabile del classico serial killer (ma siamo sicuri?) che lascia una lunga scia di delitti in un lungo lasso di tempo, ispirandosi alla storia vera del primo assassino seriale coreano conosciuto, attivo fra il 1986 e il 1991 a Hwaseong, nella provincia di Gyeonggi.

La caratteristica maggiore di Bong Joon-ho è la contaminazione del genere che sfocia sempre e immancabilmente in considerazioni politico-sociali: il suo cinema non è semplicemente il racconto della trama – spesso thriller – perché essa viene sempre incastonata nell’ambito sociale del periodo e esprime chiaramente (come nel caso appunto di Parasite) nella lotta di classe. Anche questa volta egli inquadra la narrazione mettendo sullo sfondo la situazione di quel momento in Corea del Sud, dove nel periodo dei fatti raccontati la censura e alcune volte la repressione erano le facce contraddittorie di un Paese che cercava la legittimazione internazionale e la democrazia del futuro (erano in arrivo le mitiche Olimpiadi). Così come fotografato dall’autore, queste incoerenze, questi contrasti sociali paiono quasi come graffi grotteschi che velatamente accompagnano il dipanarsi degli eventi.

Siamo in un piccolo paesino, talmente tranquillo che pare un piccolo paradiso dimenticato dal resto del mondo, dove la vita va avanti senza scossoni, quando all’improvviso arriva l’evento tragico che sconvolge tutti: una donna viene trovata stuprata e uccisa in un canale di scolo lungo una strada che attraversa i campi coltivati. La reazione è quella classica dei posti come quello, con spavento, stupore e voglia di dimenticare presto, ma le reazioni si moltiplicano allorquando il fatto si ripete. Figuriamoci come possa essere preparata la polizia locale davanti a fattacci simili e infatti la coppia di poliziotti inetti quanto in malafede ordinati ad indagare e chiarire le circostanze e chissà arrestare il colpevole si rivela ovviamente del tutto inadeguata a fronteggiare la minaccia in corso. Motivo per il quale un agente di città, Seo Tae-yun, arriva da Seul con la spocchia e l’aplomb del detective che risolve tutto con i metodi moderni che lui sa applicare in questo tipo di indagini. E come un novello David Lynch, da cui ha saputo trarre lezione, Bong Joon-ho semina sul percorso della trama pezzi di corpo, che spiazzano ancor più gli indecisi indagatori, che ogni volta che credono di avere in mano buone carte si ritrovano spesso punto a capo. Mentre nel fuori campo, come un particolare di secondo piano ma che lui non vuole mettere fuori gioco, le rivolte studentesche che reclamano maggiore libertà restano sullo sfondo, nascoste alla vista, che invece inquadra i fallimenti della polizia alla disperata ricerca del capro espiatorio da esporre al pubblico ludibrio, come un nostrano Girolimoni di memoria fascista. Il sarcasmo del regista colpisce duramente nella scena in cui la radio trasmette la maledetta canzone che coincide con le operazioni criminali del serial killer ma gli uomini dell’ordine sono tutti impegnati nella soppressione di una manifestazione di protesta.

Mai sottovalutare Bong Joon-ho, che è stato “autore” sin dagli esordi ma non ci fu concesso di goderne da subito: lui ha un suo stile inconfondibile, ha i suoi personalissimi metodi di lavoro, ha l’attore feticcio che non lo tradisce mai, il simpaticissimo Song Kang-ho, che lo seguirà anche nei film seguenti fino al culminate Oscar, soprattutto sa essere imprevedibile, motivo per il quale ci sorprende ogni volta con giravolte narrative. Questo villaggio sperduto nella Corea del Sud è un suo microcosmo dove si ripete lo scontro tra le classi, perché il poliziotto di provincia e quello di città è anche uno scontro tra modi di vivere differenti, un luogo dove la ricerca della verità è una strada scivolosa, mentre il presente, difficile e in corso di cambiamento, non è facilmente gestibile da chi ha una divisa anche se solo mentale. Sotto questo profilo, questo suo attore preferito è perfetto, come sempre, perché riesce ad impersonificare con facilità l’uomo qualunque del popolo, è l’attore dei personaggi mediocri e meschini, che bada essenzialmente a cavarsela.

Il finale è intelligentemente imbarazzante e l’espressione attonita della faccia del suo Park Doo-man sembra la degna conclusione del film, che intrinsecamente ci indica che l’assassino è, era e rimarrà un mistero, meglio indicato nel titolo originale internazionale, Memories of Murder (Memorie di un assassinio), con una “i” in più che rende più impersonale il fatto criminoso. L’assassinio rimane senza autore, tanto che quel poliziotto non resiste all’idea di ridare uno sguardo a qual maledetto canale di scolo. Non si sa mai.
Riconoscimenti
2003 - Premio Daejong
Miglior film
Miglior regista
Miglior attore a Song Kang-ho
2003 - Tokyo International Film Festival
Miglior film asiatico
2003 - Torino Film Festival
Premio Holden per la sceneggiatura
Premio del pubblico






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