Menocchio (2018)
- michemar

- 28 feb 2022
- Tempo di lettura: 2 min

Menocchio
Italia/Romania 2018 dramma storico 1h43’
Regia: Alberto Fasulo
Sceneggiatura: Alberto Fasulo, Enrico Vecchi
Fotografia: Alberto Fasulo
Montaggio: Johannes Nakajima
Musiche: Paolo Forte
Scenografia: Anton Spacapan Voncina
Costumi: Viorica Petrovici
Marcello Martini: Menocchio
Maurizio Fanin: l'inquisitore
Carlo Baldracchi: il carceriere Parvis
Nilla Patrizio: la moglie
Emanuele Bertossi: Zanutto
Agnese Fior: la figlia
Roberta Potrich: la strega torturata dall'Inquisizione
TRAMA: Montereale, Friuli, 1584. Domenico Scandella detto Menocchio, mugnaio autodidatta, viene accusato di eresia dall'Inquisizione. Stanco di soprusi e ingiustizie, è convinto di poter riconvertire ad un ideale di povertà e amore persino il Papa.
Voto 6,5

È l’Italia di fine Cinquecento, in piena controriforma. È lo scontro fra il potere centrale di Roma e i poteri locali delle periferie. Il campo di battaglia è la coscienza degli individui. Lo strumento è la confessione. L'obiettivo: il controllo totale delle anime, ancor prima dei corpi. Niente, assolutamente niente deve sfuggire all'orecchio del Santo Uffizio dell'Inquisizione, nemmeno le eresie pronunciate da un mugnaio di un paesino sperduto nel nord del Friuli, ai piedi di una montagna chiamata - ironia della sorte - Monte Spia. Arrestato, processato e condannato all'ergastolo per aver pensato e detto, fra le altre cose: "È più grande precetto amare il prossimo che amare Iddio", Menocchio attraverserà il processo senza tradire nessuno, sopravviverà a due anni di carcere, uscirà gravemente malato. Poi guarirà, lavorerà, lotterà, amerà, soffrirà, vivrà, Fino a che non sarà il Papa in persona, Clemente VIII, ad ordinarne il secondo arresto e l'esecuzione.

Su Domenico Scandella, detto Menocchio, si è basata la ricerca storiografica da parte del quasi esordiente (la sua opera prima, Tir, aveva vinto il Marc'Aurelio d'oro per il miglior film al Festival internazionale del film di Roma 2013) Alberto Fasulo, pure lui friulano come il protagonista. Il quale spiega quello che lo ha spinto a realizzare un film su un argomento non facile, partendo dalle ombre e le tenebre di una fotografia cupa: “Quando oggi si toccano gli argomenti religiosi c’è molta confusione e paura, e il film è stata l’occasione per confrontarmi con questi sentimenti, insiti nella nostra cultura. Una cultura che, anche nelle sue manifestazioni laiche, è imbevuta di senso di colpa: si preferisce mettere a tacere la propria coscienza e conformarsi a un’ortodossia che ti mette in sicurezza. È vero, ci si muove nell’oscurità: emerge dall’ombra e, lungo un percorso di identificazione e affermazione, arriva fino a una luce che si apre; seguendo queste suggestioni mi piacerebbe che venisse visto come un film di rivelazione.”

Il regista, che proviene da una preparazione documentaristica, ha dedicato gran parte del film ai primi piani, con la macchina da presa sulle sue spalle e con uno scopo ben preciso: il primo piano, che, secondo il suo modo di fare cinema, è il gesto registico attraverso cui riesce meglio a esprimersi. È un guardarsi dritto negli occhi, secondo lui, e questa esperienza, inevitabilmente, la fa vivere anche agli spettatori.

Un lato molto interessante dell’opera è che si percepisce come il regista sia stato ispirato dai quadri dell’epoca, da cui ha attinto per ricreare una realtà possibile e credibile, stando attento – e lo si nota osservando bene il film – all’importanza dell’uso della luce.
Film impegnativo derivato dalle ricerche personali di Alberto Fasulo, alla luce dei verbali dei processi inquisitoriali conservati presso l’archivio arcivescovile di Udine. Film che ha interessato non pochi critici e ha raccolto premi ad Annecy e al BIFEST di Bari.






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