Miele (2013)
- michemar

- 29 ago 2022
- Tempo di lettura: 5 min

Miele
Italia/Francia 2013 dramma 1h36’
Regia: Valeria Golino
Soggetto: Angela Del Fabbro alias Mauro Covacich (Vi perdono)
Sceneggiatura: Francesca Marciano, Valia Santella, Valeria Golino
Fotografia: Gergely Pohárnok
Montaggio: Giogiò Franchini
Musiche: Christian Rainer
Scenografia: Paolo Bonfini
Costumi: Maria Rita Barbera
Jasmine Trinca: Irene / Miele
Carlo Cecchi: Carlo Grimaldi
Libero De Rienzo: Rocco
Vinicio Marchioni: Stefano
Iaia Forte: Clelia
Roberto De Francesco: Filippo
Barbara Ronchi: Sandra
Massimiliano Iacolucci: padre di Irene
Claudio Guain: Ennio
Elena Callegari: Carla
Teresa Acerbis: madre di Lorenzo
Jacopo Crovella: Lorenzo
Valeria Bilello: madre di Irene
TRAMA: Pur lavorando in incognito e con il nome in codice di Miele, la trentaduenne Irene è abbastanza conosciuta negli ambienti ospedalieri per la sua propensione ad assistere persone in cerca d'aiuto. Irene, che vive da sola e all'apparenza è una ragazza come tante altre, da tre anni si dedica ad alleviare l'agonia dei malati terminali, stabilendo con loro un rapporto di empatia e aiutandoli a morire. Quando però la contatta Grimaldi, un settantenne in ottima salute ma stanco di vivere a causa di un male invisibile che gli tormenta l'anima, Irene si ritrova a dover prendere decisioni inaspettate e a cercar risposte che le sconvolgono l'esistenza.
Voto 7

Eutanasia, una parola discussa, che però in questo caso specifico non riguarda solo chi è malato fisicamente. Anzi, ci indica persone che prendono una decisione così imponente per motivi riflettuti, ponderati: una scelta, più che mai. Principalmente mal di vivere, stanchezza mentale, rifiuto della società così come è diventata, rigetto della mentalità corrente, tra l’altro influenzata fortemente dalla pessima televisione che trasmette solo trash, che per uno dei personaggi importanti del film, è un’attrazione da cui non sa allontanarsi, perché divertito e perché schifato da personaggi effimeri che infestano da mane a sera format abominevoli. Ad aiutare queste persone giunte alla stazione d’arrivo perché non sopportano più il dolore fisico o una vita che non è più vita (stato d’animo umanamente comprensibile) c’è una ragazza totalmente fuori dai soliti schemi, Miele, pseudonimo di Irene, meglio definita dalla stessa regista esordiente, Valeria Golino: “Miele è una donna moderna, forte, inedita nel panorama cinematografico. Come la prospettiva da cui racconto il tema del suicidio assistito. In quello che fa è mossa da una forte pietà priva di moralismi, laica, che la permea quasi inconsapevolmente. Ma contemporaneamente è dotata di una spregiudicatezza non comune. È una solitaria: a causa dell’attività che ha scelto. Ma, viceversa, è anche spinta a fare quello che fa perché, intrinsecamente sola, può permetterselo.”

Perché lo faccia, perché spinta a questa mansione così fuori schema e ovviamente vietata - un vero reato - è difficile spiegare e la regista prova a farcelo capire tramite lo svolgimento della trama e i tanti dialoghi imbastiti con il giovane dottore che le procura i clienti terminali ma specialmente con uno dei suoi ultimi contatti che ha chiesto il suo intervento, l’ingegnere Grimaldi, uomo intelligente e interessante (come persona e come personaggio), che invece di utilizzare subito il suo servizio a domicilio trascorre molto tempo e diverse occasioni per un consistente ed utile scambio di idee nel merito con la ragazza. Sia a proposito delle cause che la motivano, sia su alcuni aspetti esistenziali della vita dei due. È qui che si svolge la parte più interessante del film di Valeria Golino: i frequenti dialoghi tra i due personaggi fanno sì che si scoprano lentamente, dopo un inizio più che inquieto e nervoso. Prima di tutto perché lei, come si comporta ogni volta che si reca nella casa di chi ha deciso di troncare facilmente e velocemente la propria vita, è essenziale nel comportamento e nel rapportarsi con il cliente, a cui correttamente chiede sempre più volte se sia veramente convinto della pesante decisione presa, e poi perché non gradisce lo sguardo dell’ingegnere che la scruta come se volesse indagare su di lei, sulla sua vita privata, su cosa prova nell’intimo portando la morte alla gente, pur consapevole, sulle alternative che la vita le ha offerto. Miele è chiusa al confronto, è innervosita, infastidita ed è sulla difensiva, reagendo e aggredendo l’interlocutore. Diventa scortese. La si può notare quando “lavora” osservando l’ambiente che la accoglie con uno sguardo torvo che si piega al sorriso solo verso il richiedente, ma con Grimaldi ancora peggio. Non sopporta che qualcuno voglia scardinare il suo animo, i suoi segreti, il suo passato, la sua “ideologia” (come l’accusa l’uomo) e reagisce come un animale che non vuole che qualcuno interferisca con la sua libertà di pensiero e soprattutto di scelta verso un’attività così particolare. Ma davvero Miele (nome provocatorio ma adatto ai suoi modi) porta la sua essenza dolcificante agli ammalati terminali e a chi rifiuta coscientemente di proseguire una vita noiosa? La guerra tra i due diventa un armistizio, poi, dopo il peggior momento del rapporto, mutandosi in un’amicizia prima imprevedibile. Tornano dal “tu” del litigio al “lei” professionale iniziale ma si aprono come due amici e il servizio che lei gli ha offerto passa in secondo piano. Forse messo da parte, per ora. Tanto che il finale troverà una soluzione differente anche se preannunciata con nonchalance.

Il tema centrale della trama è, quindi, quello tra Miele e Carlo Grimaldi, che interpreta noi spettatori che la osserviamo, come fa lui. I lunghi dialoghi spiegano la filosofia che prima spingeva Miele ad adoperarsi come una suora laica che solleva dal dolore, ora, in crisi, che la induce a ripensarci e quasi a pensare di smettere. Forse lei non cerca altro che qualcuno le faccia interrompere questi viaggi ripetitivi tra le città italiane dove viene richiesto il suo aiuto e il lontano Messico dove si procura quel veleno per cani di cui in Italia è vietata la vendita. Come i suoi rapporti vagamente amorosi, con il medico prima e con un altro uomo adesso, appaiono solo apparentemente sani e necessari, così è la sua attività, molto ben retribuita con buste piene di banconote da 100 euro. Sicuramente i ripensamenti sull’attività vengono da lontano ma i colloqui con l’ingegnere aumentano la sua crisi personale, anche verso il compagno saltuario che frequenta. Le osservazioni di Grimaldi suonano come un rimprovero (anche se lui stesso ne ha richiesto il servizio), sono uno sprone a trovare la vera strada della vita, diventano uno stimolo a riflettere sulla sua esistenza. Miele è ribelle per natura, ora lo è ancor di più. Deve scappar via verso un altrove e forse ha anche intenzione di mettere al corrente il suo anziano confidente, l’unico con cui abbia un rapporto colloquiale: in fondo non ha mai avuto una vera controparte, una persona su cui contare, una sponda amichevole. E solo con lui, incredibilmente, ha provato a convincerlo di desistere e solo con lui ha si è accorta di non essere più persuasa della sua opera. Perché, sostanzialmente, Miele è un essere solitario. Il tragico epilogo sarà il tocco finale, sarà la spinta decisiva. Per tornare Irene.

Se Carlo Cecchi dà un’ulteriore prova della sua maestria teatrale per spiegare un perché difficile ma convinto, con la sua personale pronuncia delle frasi con voce un po’ rauca di fumo di sigaretta ma quasi stentorea (è un attore di teatro e la dizione è precisa e completa, mentre tutti gli attori di cinema si mangiano o vanno in calo sull’ultima sillaba, lo avete notato mai?), un suono che sa di umano, e che conferma ancora una volta il livello della sua recitazione, Jasmine Trinca è intensa, spesso enigmatica, ma estremamente sincera, totalmente presa dal ruolo. Mai retorica ma sostanziale, sempre bella e consapevole.
Il film è lei. E Valeria Golino, che ha il merito della scelta, compie un passo d’esordio notevolissimo, mostrando una filosofia di cinema molto distante dalla marea che ci sporca continuamente. Brava!






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