Muffa (2012)
- michemar

- 23 giu 2020
- Tempo di lettura: 3 min

Muffa
(Küf) Turchia/Germania 2012 dramma 1h34’
Regia: Ali Aydın
Sceneggiatura: Ali Aydın
Fotografia: Murat Tuncel
Montaggio: Ahmet Boyacioglu, Ayhan Ergürsel
Scenografia: Meral Efe Yurtseven, Yunus Emre Yurtseven
Costumi: Dilsat Zülkadiroglu
Ercan Kesal: Basri
Muhammet Uzuner: commissario
Tansu Biçer: Cemil
Ali Çoban: Apo
Cengiz Şahin: Salih
TRAMA: Basri è un uomo di 55 anni, lavora come guardiano ferroviario e ogni giorno percorre circa 20 chilometri a piedi per controllare lo stato dei binari. Puntualmente, ogni primo e quindici del mese scrive una lettera alla polizia per avere notizie sulla scomparsa del figlio Seyfi, avvenuta misteriosamente diciotto anni prima, quando il giovane si era appena trasferito a Istanbul per studiare all'università. L'unica cosa che Besri sa è che il figlio era stato fermato dalla polizia per attività antigovernative prima di sparire senza lasciare alcuna traccia, provocando anche la morte della madre.
Voto 7

Basri è un operaio turco che vive solo e fa il guardiano ferroviario tenendo a bada dei binari che rappresentano un po’ la sua vita monotona che non va da nessuna parte, facendo tutti i giorni molti chilometri a piedi e da solo. La sua ossessione è l’assenza senza motivo del figlio Seyfi di cui non ha notizie da molto tempo. Nelle lunghe giornate di lavoro e di pause scrive, scrive lettere alle autorità per avere ragguagli ma è come sbattere contro un muro di gomma, perché, lo abbiamo sempre visto nella storia allorquando le istituzioni non vogliono rispondere per ovvi motivi, non c’è nulla da chiarire. La sua pazienza è infinita e resistente e non si arrende, neanche quando giunge una risposta sibillina e secca: “Suo figlio era avverso alle politiche del governo.”

Il focus centrale avviene durante uno degli interrogatori che Basri subisce dai funzionari stanchi delle sue richieste: succede che l’uomo, camera da presa ferma come in tanti altri frangenti, normalmente taciturno, racconta la sua infanzia, la morte che sicuramente si avvicina data l’età, la dipartita della moglie, la solitudine acuita dal vuoto lasciato dal figlio che non ha più rivisto di punto in bianco 18 anni prima. Non fa cenno dei dissidi con i colleghi, di un increscioso episodio accaduto negli spogliatoi. La risposta definitiva comunque gli sarà notificata in un’altra occasione, quando morirà, in circostanze da chiarire, il collega che lo insultava. Il finale non sorprenderà.

Come più su detto, la regia caratterizzata dalle riprese con camera ferma, che abbraccia spesso la veduta del locale dove si svolge la scena in cui i personaggi entrano ed escono dallo schermo e talvolta li aspettiamo che rientrino. È la narrazione visiva tipica del cinema europeo dell’est, dove il manierismo non è di casa e si punta all’essenziale. L’autore ci invita a osservare con attenzione i piccoli – se non assenti – movimenti dei corpi e soprattutto il rapporto relazionale tra i presenti, le pause significative e le frasi dei dialoghi qui breve lì più esplicativi. Noi siamo davanti alla scena come in un teatro e i personaggi si muovono (lentamente e al minimo) nel rettangolo fisso.
Il personaggio dirompente di Cemil, insopportabile sin dal primo minuto in cui irrompe sulla scena, sul minibus in particolare, uomo che ben presto si rivela per quello che è, cioè un rompiscatole che disturberà perfino il dolore intimo di Basri, fino a indurlo all’immobilità decisiva per la sua stessa vita. Questa fastidiosa figura, spesso ingombrante, richiama l’ossessività della presenza dello Stato: ammicca ad una amicizia che non esiste e diventa asfissiante con le insinuazioni e le minacce.
Ma è Basri il baricentro della trama, sempre sulla scena dal primo minuto, sempre solitario e silenzioso, manifesto delle sue sofferenze. Spalle incassate, testa inclinata in avanti, è come se trasportasse addosso il dolore di chi non c’è più, una moglie morta non ancora 40enne ed un figlio nel pieno del momento giovanile. Il film è tutto sul suo viso, indurito dal dolore e dal silenzio delle autorità, per giunta sollecitato da chi le rappresenta a non scrivere più lettere di chiarimenti e sollecitazioni. Una immobilità fisica che sfiora l’apatia, al culmine proprio quando i minimi scatti dello sguardo rimbalzano tra il vagone che arriva e il suo ostile collega ubriaco che urina sui binari. Perché non lo ha aiutato a salvarsi? Sul suo volto è scritta tutta la trama del film.

L’esordio di Ali Aydin è affascinante, premiato nel 2012 a Venezia con il Leone del Futuro: esporre la logica antiumanista del Potere non è un racconto facile se non si vuole essere banali e necessita di silenzi e sguardi, di volti semplici e complessi allo stesso tempo. In questa maniera, il cinema, senz’altro d’autore, assurge a lezione storica eterna, di lotta perenne tra lo stato padrone e il cittadino con i diritti scritti con inchiostro labile, con un vincitore scontato. E quando arriva la verità inevitabilmente arriva anche la parola fine.






Commenti