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Nomadland (2020)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 3 mag 2021
  • Tempo di lettura: 6 min

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Nomadland

USA/Germania 2020 dramma 1h47’


Regia: Chloé Zhao

Soggetto: Jessica Bruder (libro)

Sceneggiatura: Chloé Zhao

Fotografia: Joshua James Richards

Montaggio: Chloé Zhao

Musiche: Ludovico Einaudi

Scenografia: Joshua James Richards

Costumi: Hannah Perterson


Frances McDormand: Fern

David Strathairn: Dave

Linda May: Linda

Charlene Swankie: Swankie

Bob Wells: Bob


TRAMA: Dopo aver perso il marito e il lavoro durante la Grande recessione, la sessantenne Fern lascia la città industriale di Empire, Nevada, per attraversare gli Stati Uniti occidentali sul suo furgone, facendo la conoscenza di altre persone che, come lei, hanno deciso o sono state costrette a vivere una vita da nomadi moderni, al di fuori delle convenzioni sociali.


Voto 7,5

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Il 31 gennaio 2011, dopo il collasso economico di una città aziendale nel Nevada rurale, per la precisione Empire, nel Nevada, a causa della riduzione della domanda di cartongesso, la ditta che lo produceva chiuse gli impianti. Fern, vedova, allora carica i bagagli sul proprio furgone e si mette in strada alla ricerca di una vita fuori dalla società convenzionale, come una nomade moderna.

Ciò che colpisce del film, oltre il paesaggio autunnale, la vasta estensione delle pianure americane con lo sfondo delle montagne lontane, oltre la particolarità della storia e dei personaggi, è lo sguardo. Che è prima di tutto quello della regista Chloé Zhao, ma è anche quello della protagonista Fen, e poi il nostro sguardo. Tre modi sincroni di guardare la vita e ciò che succede alla donna. La macchina da presa in mano alla regista cinese è, per buona parte delle riprese, puntata vicino al viso rugoso di Frances McDormand, sui suoi occhi in particolare, mentre lei scruta pensosa l’orizzonte verso cui decide sempre di andare, irrequieta anima che punta continuamente in direzioni spesso sconosciute, verso luoghi che la facciano stare bene dentro, con se stessa e con chi incontrerà. È anche, però, una irrequietezza che trova facilmente serenità ogni volta che decide di sostare, approfittando di occasioni di lavori temporanei che le diano la possibilità di sostenersi e di continuare a viaggiare.

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Aveva una casa, come tante famiglie, dal cui retro vedeva il deserto, tanto deserto, limitato all’orizzonte dalle montagne, ma il giorno che ha perso il marito Bo per una malattia inguaribile ha deciso di lasciare quel luogo che le dava sofferenza e ha scelto una vita libera, indipendente, senza legami, frequentando solo le tantissime altre persone che come lei vagano di luogo in luogo, e si fermano – ma non per molto tempo – lì dove è possibile accamparsi con le proprie roulotte o furgoni adibiti ad abitazione. Gente che trova pace nello spazio che la natura offre loro e che, come dice Swankie, un’anziana signora malata terminale, che conosce in una delle tante piazzuole del deserto del west dove parcheggiano i van dei viandanti, vengono chiamati “nomadi” ma per pigrizia, erroneamente. Per noi occidentali questo termine è sinonimo di “zingaro”, parola usata in senso dispregiativo, perché, come succede sempre, gli appellativi che riguardano le minoranze etniche hanno un peso razzista e discriminatorio. E questi “nomadi moderni” vengono visti dagli stanziali come animali diversi, come esseri distanti dalla normalità. E Chloé Zhao ce li racconta con delicatezza e sensibilità allo scopo di mostrare la loro umanità, la socievolezza, l’altruismo con cui si aiutano in ogni istante per ogni tipo di necessità. Inizialmente lo spettatore non capisce perché mai questa tanta brava gente abbia fatto una scelta di questo genere, così particolare e difficile, perché abbia rinunciato ad una casa più fisica e soprattutto fissa: cosa li avrà spinti, quali motivazioni avranno mai avuto? Scopriamo che nella quasi totalità essi, come la nostra Fen, hanno subito una perdita pesante. Un figlio suicida, un marito malato… Hanno preferito abbandonare un luogo che ricorda la loro sofferenza, il vuoto mai colmato, il letto rimasto intatto, la solitudine del risveglio. Meglio allestire il van e partire per le lunghe strade che attraversano il deserto e fermarsi dove tanti altri, come loro, si radunano intorno ad un fuoco seduti su poltroncine consunte e sgabelli malconci e chiacchierare in pace e amicizia, trovare nel frattempo un lavoro stagionale presso un fast food, uno stabilimento Amazon, nei campi di raccolta intensiva di barbabietole in Nebraska. Per poi tornare intorno a quel focolare all’aria aperta e ritrovare i sorrisi di tanti uomini e donne con i capelli bianchi che si dividono quel poco che hanno.

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Gente che cerca di colmare il vuoto fisico con un rapporto d’affetto con persone che prima non conoscevano ma che adesso sono i compagni di un viaggio fatto di tante tappe ma senza un traguardo, gustando con enorme soddisfazione la felicità di riscoprire, dopo tanto girovagare, persone conosciute in precedenza con la stessa emozione di prima. E come insegna Bob (tutti i personaggi mantengono nel film gli stessi nomi propri), l’anziano più saggio che Fern incrocia più volte: “Una delle cose che amo di più in questa vita è che non c’è un addio definitivo. Io non dico mai addio per sempre, dico sempre solo ‘Ci vediamo lungo la strada’, ed è così, e che sia un mese, un anno, a volte più anni, li rivedo e posso guardare la strada e sono sicuro in cuor mio che rivedrò mio figlio [nota: morto per overdose]. Tu rivedrai Bo e potrete rivedere le vostre vite insieme, allora.” A lui, Fern, aveva confidato prima: “Bo non ha mai conosciuto i suoi e non abbiamo mai avuto figli. Se non fossi rimasta, se me ne fossi andata via sarebbe stato come se lui non fosse mai esistito. Non potevo fare le valigie e andare via. Ah, lui amava Empire, amava il suo lavoro moltissimo, tutti gli volevano bene. Perciò sono rimasta. Questa città, questa casa… Come diceva mio padre ‘Ciò che viene ricordato, vive’. Ma forse ho passato troppo tempo della mia vita solo a ricordare, Bob. Sai cosa voglio dire?” Se osserviamo con attenzione queste persone, calme, riflessive, rappacificate con se stesse, ci accorgiamo che non sono affatto poche, sono tante e nella quasi totalità sono anziani e in ognuno di loro c’è dolore e perdita, che molti non riescono a superare. Sono sparsi per il deserto ma sono una comunità che si rincuora ogni volta che si ritrova, che diventa anche l’occasione di scambiarsi gli oggetti personale che magari non usano più mentre l’altro ne ha forse bisogno. Baratto e aiuto reciproco.

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Ormai, Fern, ha scelto la sua vita (non lo fa per necessità, sia chiaro) e non cambia idea neanche quando Dave (David Strathairn), il nomade con cui ha instaurato un rapporto diverso dagli altri, forse di affetto ricambiato, la tenta con un invito timido e sincero. In occasione della festa del nipotino, le offre un posto nella casa della figlia per trascorre il resto della vita assieme. Ma no, non è più tempo per lei per questi legami, non rinuncia alla scelta fatta e, come un cerchio che si richiude, torna nella sequenza finale a dare una controllata alla sua casa, abbandonata per sempre, per dare un’occhiata a quel retro affacciato sul deserto che per lei è ormai la sua vera e definitiva casa. Nel silenzio che solo quei paesaggi sanno offrire, nella vastità dei panorami, con le inquadrature sui vecchi e rugosi visi dei mille anziani che sfilano davanti alla camera da presa (sembrano le pietre e le rocce del paesaggio), risuonano dolcissime le note del pianoforte di Ludovico Einaudi, nel finale commoventi come il film. Che film, però, non sembra mai. Se nel cinema esiste il termine di mockumentary, che indica un falso documentario, cioè un filmato che in cui eventi fittizi e di fantasia sono presentati come se fossero reali attraverso l'artificio di un linguaggio documentaristico, qui si ha l’impressione opposta. Cioè pare di assistere ad un film di finzione quando invece ci troviamo al cospetto di una serie di sequenze in cui si recita poco e si ascoltano dialoghi sinceri di gente vera, che interpreta nessun altro se non se stessi. Per quello che sono. E i brani del musicista italiano diventa parte integrante della visione. Il particolare davvero curioso è come la regista sia venuta a contatto con il nostro connazionale. Lei racconta: “So di non fare bella figura a confessarlo, ma ho cercato su Google ‘musica classica ispirata alla natura’ e su YouTube – ha dichiarato Chloé Zhao - mi è comparso il video di Elegy for the Arctic di Ludovico Einaudi, in cui il maestro suona il pianoforte su una piattaforma galleggiante fra i ghiacci del Polo Nord. Ho pensato che la sua musica funzionasse per il nostro film, e così è stato.

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Che Frances McDormand sia adatta al personaggio di Fern è persino superfluo farlo notare, anche perché fisicamente lei forse era già pronta da chissà quanto tempo per questo ruolo anomalo (“Sono houseless, non homeless”), differente da tutto ciò che ha recitato fino ad oggi, ma sicuramente era scritto nel suo destino fisiognomico, e quando si è incontrata ad una premiazione con la regista e si sono conosciute, si sono subito rese conto che dovevano realizzare questa opera emozionante, che tocca il cuore con infinita sensibilità come solo una donna, a maggior ragione orientale, avrebbe saputo fare. Alla fine della visione si ha l’impressione di uscire da una favola ed invece si è assistito alla più reale e delicata delle vicende umane. All’umanità che ci circonda e di cui ci accorgiamo poco. “Il film [nota: scritto dopo tre anni di ricerche dalla giornalista americana Jessica Bruder, divenendone il soggetto] è un pellegrinaggio di dolore e guarigione” (Chloé Zhao).

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Dedicated to the ones who had to depart.

See you down the road.



 
 
 

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