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Orizzonti di gloria (1957)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 27 giu
  • Tempo di lettura: 6 min
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Orizzonti di gloria

(Paths of Glory) USA 1957 guerra, dramma 1h28’

 

Regia: Stanley Kubrick

Soggetto: Humphrey Cobb (romanzo)

Sceneggiatura: Stanley Kubrick, Calder Willingham, Jim Thompson

Fotografia: George Krause

Montaggio: Eva Kroll

Musiche: Gerald Fried

Scenografia: Ludwig Reiber

Costumi: Ilse Dubois

 

Kirk Douglas: colonnello Dax

Ralph Meeker: Philippe Paris

Adolphe Menjou: Georges Broulard

George Macready: Paul Mireau

Wayne Morris: tenente Roget

Richard Anderson: maggiore Saint-Auban

Joe Turkel: Pierre Arnaud

Timothy Carey: Maurice Ferol

Jerry Hausner: proprietario della taverna

Peter Capell: colonnello giudice della corte marziale

Christiane Kubrick: cantante tedesca

 

TRAMA: Dopo essersi rifiutati di attaccare una postazione nemica, alcuni soldati sono accusati di codardia da parte di un generale e vengono difesi nel tribunale militare dal loro comandante.

 

VOTO 10


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“Ogni film un capolavoro” è divenuta nel corso del tempo, per le poche opere di Stanley Kubrick, quasi un’etichetta che finisce, tra l’altro, per coprire le sue manie, stranezze e spese. Tredici titoli soltanto, ma ognuno resta ed è citato come un punto fermo del genere cui appartiene. Egli, infatti, si è cimentato con film quasi sempre diversi: lo storico epico in tunica come Spartacus e il ‘700 di Barry Lindon (il più bel film della storia del cinema), quelli di guerra, da questo sino al Vietnam di Full Metal Jacket, dalla fanta-realtà del Dottor Stranamore alla fantascienza di 2001, da un thriller quale Shining alle ossessioni amorose di Lolita e di Eyes Wide Shut.


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Una geniale trasversalità cinematografica che tuttavia ha alcune tematiche ricorrenti, soprattutto nelle sue prime opere. Una di questa può essere individuata nella predilezione del regista americano per le tematiche belliche. Basti pensare che il suo primo lungometraggio, Paura e desiderio, del 1953, è proprio un film di guerra, anche se in seguito lo ha quasi ripudiato ritenendolo con molti difetti e troppo dilettantesco. Più volte Stanley Kubrick concepisce i suoi film come profonda critica al potere sia politico e militare. Due esempi per tutti: in Arancia Meccanica la denuncia è contro la violenza insita in una società cinica che riduce i propri cittadini da esseri umani a oggetti, annullandone la libertà individuale. In questo film (e poi anche nell’altro bellico), la critica è indirizzata nei confronti dell’ottusità degli alti ranghi militari e più in generale contro la guerra. Tutte le guerre.


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La trama parla di un atroce episodio sul fronte francese durante la Grande Guerra: tre soldati vengono scelti per essere giustiziati a mo’ di esempio. Il colonnello Dax (un gigantesco Kirk Douglas) tenta invano di salvare la loro sorte e il film diventa uno dei più fieri atti di denuncia contro la follia del conflitto bellico. Qui l’attore non si conferma solo mattatore (difatti lo vediamo meno istrionico del solito), ma si espose personalmente perché il film venisse realizzato a tutti i costi e così fu anche con il giovane regista Kubrick che aveva conosciuto da poco e su cui scommetteva tutta la sua fama di interprete. E lo stimò così tanto nell’occasione che i due si ritroveranno tre anni dopo aver cacciato dal set di Spartacus il regista che stava dirigendo, Anthony Mann. Fino a Orizzonti di gloria, Kubrick non era conosciuto, nemmeno in America, nel senso che aveva fatto dei piccoli film indipendenti che non avevano avuto una via commerciale importante. Questo film è stato fatto da lui, appunto, solo perché l’ha chiamato l’attore protagonista, persona molto intelligente, che ha visto quel ragazzo e ha capito che era un genio. Il film in Italia e in Europa fu un’esplosione di successo ma fu proibito in Francia perché i francesi non ci facevano una bella figura. Sfumature stilistiche, piani sequenza straordinari (memorabile quello nella trincea, ancora oggi portato ad esempio di perfezione), dibattiti militareschi insopportabili ed una scena finale tanto semplice quanto commovente.



Nel 1916, durante la Prima Guerra Mondiale, nel nord della Francia, il maggiore generale francese Georges Broulard ordina al suo subordinato, il generale di brigata Paul Mireau, di prendere il cosiddetto formicaio, una posizione tedesca ben difesa. Mireau rifiuta, citando l’impossibilità di successo. Tuttavia, quando Broulard ventila una potenziale promozione, l’altro si convince rapidamente che l’attacco avrà successo. Nelle trincee il terrore serpeggia e Mireau espelle un soldato semplice dal reggimento soltanto per aver mostrato segni di shock da bombardamento. Ma ad un certo punto lascia la pianificazione dell’attacco al colonnello Dax (Kirk Douglas), nonostante le proteste di questi che il risultato avrebbe indebolito l’esercito francese. Prima dell’attacco, il tenente Roget, ubriaco, conduce una missione di ricognizione notturna, mandando avanti uno dei suoi due uomini. Sopraffatto dalla paura mentre aspetta il ritorno dell’uomo, Roget lancia una granata, uccidendo accidentalmente proprio l’esploratore. Il caporale Paris, l’altro soldato in missione, affronta Roget, che nega qualsiasi illecito e falsifica il suo rapporto al colonnello Dax.



La mattina dopo, l’attacco al formicaio risulta, come prevedibile, un fallimento. Dax guida la prima ondata di soldati oltre le righe nella terra di nessuno sotto il fuoco di fucili pesanti e mitragliatrici. Nessuno degli uomini raggiunge le trincee tedesche e la Compagnia B si rifiuta di lasciare la trincea dopo aver visto quella strage. Mireau allora ordina alla sua artiglieria di aprire il fuoco su di loro per costringerli ad avanzare. Il comandante dell’artiglieria si rifiuta di sparare senza una conferma scritta dell’ordine. Per sviare la colpa del fallimento dell’attacco, Mireau decide di portare alla corte marziale 100 soldati per codardia. Broulard ordina a Mireau di ridurre il numero e così si arriva a tre, uno per ogni compagnia. Il caporale Paris viene scelto perché il suo ufficiale comandante desidera impedirgli di testimoniare su ciò che era accaduto nella missione di esplorazione. Il soldato Ferol viene scelto dal suo ufficiale comandante perché è un indesiderabile sociale. Il soldato Arnaud viene scelto a caso.



Dax, un avvocato penalista nella vita civile, si offre volontario per difendere gli uomini nella corte marziale. Il processo, però, è una farsa. Non c’è un atto d’accusa scritto formale, non è presente uno stenografo del tribunale e il tribunale rifiuta di ammettere prove che potrebbero portare all’assoluzione. Nella sua dichiarazione conclusiva, il colonnello denuncia con rabbia il procedimento. Più tardi, in un incontro con Broulard, Dax lo informa che Mireau aveva ordinato all’artiglieria di sparare sulle trincee francesi per spingere i soldati che si rifiutavano di attaccare. Ciononostante, i tre vengono condannati a morte e fucilati da un plotone di esecuzione.



Volendo osservare le scelte registiche non si può evitare di notare il pavimento della grande stanza in cui avvengono le acerbe discussioni tra gli ufficiali accusatori e la difesa, e poi il dibattito: l’ordine e lo schema mentale militaresco è raffigurato nei grandi mattoni a scacchi che lo compongono, mentre le falcate imperiose dei grandi ufficiali li attraversano spezzandone la geometria, come a rappresentare la follia che li abita e che li fa agire in quel modo. È la follia della guerra e più ancora dei loro valori militari che l’hanno generata e la guidano. Come accade sempre nella Storia, l’aristocrazia militarista ordina il massacro dalle retrovie; il popolo in trincea obbedisce, si fa ammazzare, a volte si rifiuta; la classe borghese e intellettuale, come l’eroico colonnello Dax, tenta di fermare il suicidio di massa, fallendo. Quante volte urliamo nei cortei contro questa follia? Quanti appelli declamano i Papi, i cittadini illustri pacifisti, la gente comune? Niente, periodicamente l’uomo, dimentico delle sciagure che ha vissuto o che non ha visto perché generazione seguente a chi l’ha fatta, la guerra tra popoli si riaffaccia e non porta a nulla se non distruzione e morte.



Il capolavoro è servito. Il merito è di Stanley Kubrick, che ci mette la forza dello stile. Ma se non ci fosse stato Kirk Douglas non l’avrebbero distribuito neanche negli States. Ogni scena è magnificamente perfetta, ogni sequenza è una lezione di cinema, ogni inquadratura non ha nulla da aggiungere e nulla andrebbe tolto. L’urlo di dolore, la follia della guerra, l’inutilità del risultato, è tutto condensato in un’ora e mezza di cinema di alta drammaticità. Non c’è un attimo di sosta per il dolore dell’anima: è un film essenziale in sé, per ciò che porta con sé, è negli occhi arrabbiati e delusi di Dax, è nelle espressioni irragionevoli degli ufficiali che vogliono dare un esempio alle truppe ed invece lo diventano per la stupidaggine della guerra.



Paths of glory lead but to the grave”, “I sentieri della gloria non conducono che alla tomba” è un verso di una poesia di Thomas Gray da cui il titolo originale.

Chi non si commuove nel finale con la canzone cantata dalla moglie di Kubrick, Christiane, ha un cuore di pietra.


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No, non ci furono grandi riconoscimenti, eppure questo film è un vero capolavoro.



 
 
 

Commenti


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