Panic Room (2002)
- michemar

- 26 nov
- Tempo di lettura: 3 min

Panic Room
USA 2002 thriller 1h52’
Regia: David Fincher
Sceneggiatura: David Koepp
Fotografia: Conrad W. Hall, Darius Khondji
Montaggio: James Haygood, Angus Wall
Musiche: Howard Shore
Scenografia: Arthur Max
Costumi: Michael Kaplan
Jodie Foster: Meg Altman
Kristen Stewart: Sarah Altman
Forest Whitaker: Burnham
Jared Leto: Junior
Dwight Yoakam: Raoul
Patrick Bauchau: Stephen Altman
Ann Magnuson: Lydia
Ian Buchanan: Kurlander
Paul Schulze: Keeney
TRAMA: Meg Altman, da poco divorziata, e sua figlia Sarah, si sono appena trasferite nella loro nuova casa. Nella notte tre individui penetrano nell’abitazione alla ricerca di una cospicua somma di denaro custodita nella cassaforte dal precedente proprietario. Madre e figlia si nascondono in una camera segreta, costruita per servire da rifugio in caso d’emergenza. Ma è proprio lì che si trova la cassaforte e i tre malviventi sono pronti a tutto per raggiungerla.
VOTO 6,5

Forse siamo davanti al Fincher più claustrofobico e geometrico, perché questo è un thriller che trasforma un appartamento in campo di battaglia psicologica. Ed è anche, se così si può definire, un Fincher in miniatura.

Il regista, reduce dal terremoto culturale di Fight Club e di tutto ciò che quel film si è portato dietro con tante riflessioni, nel 2002 sceglie di chiudersi in una casa dell’Upper West Side e di ridurre il suo cinema a un microcosmo: pochi personaggi, un’unica location, un tempo narrativo compresso. Un film che vive di sottrazione: niente grandi complotti, niente architetture narrative complesse, solo una madre (Meg, Jodie Foster), e una figlia (Sarah, Kristen Stewart, giovanissima) intrappolate in una stanza blindata mentre tre ladri cercano di entrarvi.

Caratterizzato dalla presenza di un’attrice così importante e dal sempre incisivo Forest Whitaker (oltre ai giovani chiamati Kristen Stewart e Jared Leto) che quindi risalterebbero in qualsiasi film, salta all’attenzione l’importanza decisiva della regia e specialmente del mezzo: la macchina da presa. Strumento che, stando attenti, diventa un personaggio, una star del cast. La cinepresa di Fincher scivola tra i corridoi, penetra nelle serrature, attraversa i pavimenti come un animale a caccia. È un linguaggio visivo che trasforma lo spazio domestico in un organismo vivo, dove ogni dettaglio diventa tensione. Non a caso, a molti spettatori restano impressi nella mente i titoli di testa: lettere sospese nel paesaggio urbano di Manhattan, un preludio elegante e inquietante.

I personaggi sono pochi e ben delineati. La Meg di Jodie Foster è, come si nota subito, una madre determinata, che passa dal trauma del divorzio al ruolo eroina in azione. Accanto a lei c’è la Sarah di Kristen Stewart, una ragazzina ovviamente fragile ma pronta a reagire accanto alla mamma, recitando già con incredibile bravura, quasi anticipando la sua futura eccellente carriera. Come raramente gli accade, Forest Whitaker, solitamente in ruoli più da brav’uomo, per il regista diventa il ladro riluttante, moralmente ambiguo ma umano, come sa fare sempre, ed anche stavolta dimostra le qualità affidabili di grande attore. Da ultimo, Jared Leto non poteva che essere il criminale impulsivo, quasi caricaturale, che porta caos e ironia, personaggio che gli calza a pennello.

Non ci sono scene spericolate o spettacolari, tutto viaggia al minimo, nell’essenziale, costruito da Fincher per essere un film semplice ma serrato, una sorta di gioco del gatto col topo a cui non sfugge la regola basilare di non avere pause, costruito con precisione matematica. Purtroppo, è un lungometraggio un po’ trascurato dai cinefili, spesso considerato minore nella filmografia di Fincher, ed invece merita molto di più e andrebbe apprezzato maggiormente proprio per la sua purezza: niente sovrastrutture, solo suspense e ritmo.

Riguardato oggi, sembra anticipare le nostre paure contemporanee: la casa come rifugio e prigione, la tecnologia come strumento di controllo, la paranoia della sicurezza domestica. È un film che parla di isolamento e sorveglianza, temi che risuonano ancora più forti nell’era post-pandemica. E non solo, basterebbe riconsiderarlo anche con le paure sociali che sono diventate temi politici di forte rilevanza.

Per tutto ciò, non è il Fincher più celebrato, ma è quello che meglio mostra la sua ossessione per lo spazio, la precisione e il controllo. Un thriller claustrofobico che si consuma in 112 minuti di tensione pura, dove la regia diventa architettura e la casa diventa teatro di guerra. Se il mitico e cult Fight Club era un manifesto, questa stanza blindata è un esercizio di stile. E proprio nella sua essenzialità, rivela quanto il regista sappia trasformare anche un semplice assedio domestico in cinema totale.






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