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Papillon (1973)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 16 set
  • Tempo di lettura: 4 min
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Papillon

Francia, USA 1973 dramma/avventura/biografico 2h31’

 

Regia: Franklin J. Schaffner

Soggetto: Henri Charrière (Papillon)

Sceneggiatura: Dalton Trumbo, Lorenzo Semple Jr.

Fotografia: Fred J. Koenekamp

Montaggio: Robert Swink

Musiche: Jerry Goldsmith

Scenografia: Anthony Masters

Costumi: Anthony Powell

 

Steve McQueen: Henri “Papillon” Charrière

Dustin Hoffman: Louis Dega

Victor Jory: capo indiano

Don Gordon: Julot

Anthony Zerbe: Toussaint

Robert Deman: Maturette

Woodrow Parfrey: Clusiot

Bill Mumy: Lariot

George Coulouris: dottor Chatal

 

TRAMA: Papillon è condannato per omicidio e recluso nel carcere dell’Isola del Diavolo, nella Guiana. Diventa amico di Louis Dega, un falsario relegato con lui in una giungla paludosa. Qui le condizioni di vita sono così insostenibili, che Papillon tenta di fuggire, ma viene riacciuffato. Riesce a rimanere in vita solo grazie al compagno ma tenta di fuggire di nuovo, insieme all’amico e a un altro compagno. Papillon viene nuovamente catturato, in Venezuela. Riportato all’Isola del Diavolo, diventato un relitto umano, vi ritrova Dega in preda alla follia. Ma l’ansia di libertà è più forte.


VOTO 7,5


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Nel panorama del cinema carcerario hollywoodiano, il film di Franklin J. Schaffner si impone come un’opera di resistenza e sopravvivenza, un adattamento visivamente potente e narrativamente ambivalente del bestseller autobiografico di Henri Charrière. Come il libro, si presenta come un atto d’accusa contro il sistema penale francese nella Guyana, ma lo fa con la consapevolezza che la verità storica è, forse, un pretesto per raccontare un’epopea personale più che un documento. Insomma, da un lato il mito della fuga, dall’altro la brutalità del sistema.



Charrière, detto “Papillon” per il tatuaggio che porta sul petto, rivendica la propria innocenza per l’omicidio che lo condanna all’ergastolo, ma non nega la sua carriera di ladro. La sua narrazione, tanto nel romanzo quanto nella trasposizione cinematografica, è intrisa di eroismo e martirio, con le autorità penitenziarie ritratte come incarnazioni della crudeltà istituzionalizzata. Schaffner, pur non rinunciando alla spettacolarizzazione hollywoodiana, riesce a mantenere un nucleo di verità emotiva, restituendo allo spettatore la tensione tra verosimiglianza e leggenda.



Steve McQueen, nel ruolo di Papillon, abbandona il suo consueto carisma da antieroe per calarsi in una performance di sorprendente intensità fisica e psicologica. La lunga sequenza dell’isolamento - due anni di reclusione in una cella di cemento, sotto il sole implacabile, con razioni dimezzate e insetti come unica fonte di nutrimento - è un tour de force attoriale che culmina in una trasformazione visiva e mentale e fa emergere il personaggio dalla cella come un uomo spezzato, irriconoscibile, eppure ancora animato da una volontà indomita.



Dustin Hoffman, nei panni del falsario Louis Dega, offre una prova più contenuta, quasi timida. Il personaggio, che avrebbe potuto essere un contrappunto brillante alla furia di Papillon, rimane invece abbozzato, vittima di una sceneggiatura che non gli concede spessore. Hoffman si muove come un cucciolo smarrito tra predatori e il film non riesce mai a renderlo davvero memorabile, nonostante la sua presenza discreta. La loro contrapposizione filmica e letteraria è, in fondo, rappresenta due solitudini a confronto.



Non è solo un racconto di evasione, ma una riflessione sulla disumanizzazione e sulla resilienza. La prigione diventa spazio simbolico, luogo di annientamento e rinascita, dove l’individuo è ridotto all’essenza della propria volontà. La regia di Schaffner, sobria ma efficace, evita il melodramma e punta su una rappresentazione cruda, quasi documentaristica, delle condizioni carcerarie. In questo senso, il film si avvicina, mostrando il carcere come metafora, più al realismo europeo che alla retorica americana.



Il paragone con La grande fuga (1963) di John Sturges, dove McQueen interpretava un prigioniero con guanto da baseball e sorriso da poster, è inevitabile. Qui l’attore sembra voler riscattare quella performance caricaturale, offrendo una versione più autentica e dolorosa della prigionia. Il suo Papillon non è un eroe da cartolina, ma un uomo che lotta contro l’annientamento e che riesce a mantenere viva la speranza proprio nel momento in cui tutto sembra perduto.



Pur con qualche lungaggine e un personaggio secondario sottosviluppato, il film, che per certi versi è leggendario come il personaggio, resta uno dei più riusciti adattamenti hollywoodiani di un’opera letteraria. Il film ci invita a riflettere sull’umanità dei condannati, sulla brutalità dei sistemi repressivi e sul potere della narrazione come forma di resistenza. In un’epoca in cui la verità è spesso negoziabile, ci ricorda che la sofferenza, quando è raccontata con onestà, può diventare universale.



Due uomini con niente in comune se non la voglia di vivere ma anche un posto in cui poter morire liberi. Un film in cui le musiche di Jerry Goldsmith, volutamente contrastanti con l’ambientazione tropicale, sottolineano maggiormente l’antagonismo tra uomo e natura, piuttosto che il senso di avventura che si impossessa dello spettatore. La forza è sicuramente nella recitazione degli attori e nella situazione di isolamento che devono affrontare ed è per noi tutti uno dei film più spettacolari e avvincenti di sempre. Merito di una ottima regia, dell’utilizzo di notevoli mezzi e della accuratezza della messa in opera. La bravura del duo di attori protagonisti ne ha fatto poi film epico, a dispetto della lunghezza non indifferente della pellicola.



Il soggetto del film è, come precisato, tratto dal romanzo autobiografico di Henri Charrière pubblicato nel 1969 con enorme successo, ma che scatenò anche diverse polemiche circa la veridicità delle esperienze di vita carceraria nelle colonie penali della Guyana francese.



Il rifacimento del 2017 intitolato uguale, diretto da Michael Noer e interpretato da Charlie Hunnam e Rami Malek, non è proprio all’altezza dell’originale.



Riconoscimenti

Oscar 1974

Candidatura miglior colonna sonora

Golden Globe 1974

Candidatura miglior attore a Steve McQueen


 

Commenti


Il Cinema secondo me,

michemar

cinefilo da bambino

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