Paradise Road (1997)
- michemar

- 2 gen 2023
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 29 mag 2023

Paradise Road
Australia/USA 1997 dramma 2h2’
Regia: Bruce Beresford
Soggetto: Helen Olijn e Betty Jeffrey (diari)
Sceneggiatura: Bruce Beresford
Fotografia: Peter James
Montaggio: Tim Wellburn
Musiche: Ross Edwards
Scenografia: Herbert Pinter
Costumi: Terry Ryan
Glenn Close: Adrienne Pargiter
Cate Blanchett: Susan McCarthy
Frances McDormand: dottoressa Verstak
Pauline Collins: Margaret Drummond
Julianna Margulies: Topsy Merritt
Elizabeth Spriggs: Imogene Roberts
Jennifer Ehle: Rosemary Leighton-Jones
TRAMA: Durante l'invasione giapponese nelle Indie Orientali un gruppo di donne viene rinchiuso in un campo di concentramento a Singapore, dove una di loro, Adrienne, laureata alla Royal Academy di Musica, organizza un coro musicale per riuscire ad andare avanti.
Voto 7

Il film si apre nel febbraio del 1942 durante una sera di cena e balli al Raffles Hotel di Singapore, una serata di gala per i soldati di stanza nel Pacifico e le loro mogli e fidanzate. La festa viene interrotta quando viene annunciato che l'avanzata giapponese ha respinto gli Alleati e la città è in procinto di cadere. Mentre gli uomini tornano alle loro unità, le donne evacuano, stipate a bordo della Prince Albert per il viaggio precipitoso di ritorno in Australia. Sono un gruppo misto di australiane, inglesi, americane e inevitabilmente il nervosismo e l’ansia fanno scoppiare piccoli litigi. Ma questi inconvenienti vengono presto accantonati quando gli aerei giapponesi attaccano e affondano la nave. Esauste e bagnate, le sopravvissute sbarcano sull'isola di Sumatra, occupata dai giapponesi, dove vengono radunate e imprigionate in un campo di concentramento. Lì, nel corso dei successivi tre anni e mezzo, le donne si battono per sopravvivere e non perdere la speranza. A tal fine, formano una orchestra vocale, un coro che stupisce il pubblico delle compagne di prigionia eseguendo interpretazioni di Amadeus Mozart, Antonin Dvorak e Gustav Holst.

La maggior parte delle storie dei campi di concentramento sono ambientate nel teatro europeo della Seconda Guerra Mondiale, imputando principalmente Hitler per il terribile genocidio della razza ebraica. Insolitamente, questo film sposta l'attenzione sui campi meno raccontati ma non meno disumani che furono aperti nell’Oceano Pacifico. Basato sulle memorie di un paio di sopravvissute, scopre un altro strato delle atrocità associate al conflitto mondiale. E qui, differenza sostanziale, sono i giapponesi e non i nazisti ad essere additati come nemici e come autori di violenze fisiche e mentali, oltre al fatto che i sistemi che le prigioniere escogitano per sollevare il loro spirito sono, a dir poco, unici. Per raccontare l’anima e il carattere femminile che queste prigioniere mettono per avere la meglio sulle avversità, la sceneggiatura vuole accentuare ed esaltare chi non si arrende e cerca con ogni mezzo di superare ostacoli che inizialmente appaiono apparentemente impossibili: l’importante era non abbattersi, sperare ed infine risorgere.

Se la regia di Bruce Beresford è puntuale e induce all’apprezzamento senza limiti verso queste piccole eroine, quello che esalta maggiormente il film è il cast tutto al femminile di eccezionale qualità interpretative e adattamento ai vari personaggi che lo rendono ancora più bello, mettendo in mostra attrici americane, britanniche e australiane, tutte attrici pronte e adatte a mostrare una sorprendente volontà di apparire in circostanze fisicamente poco lusinghiere, senza trucco e con capelli e pelle incrostati dal fango. Ecco allora la direttrice del coro, Adrienne Pargiter, interpretata con grinta e zelo da Glenn Close; Pauline Collins è Margaret Drummond, una missionaria che si incarica di scrivere gli spartiti su fogli di fortuna, tutto a memoria; la ancora sconosciuta Cate Blanchett è la saggia Susan Macarthy, un'infermiera timida che scopre non senza difficoltà che la sua voce è in grado di esprimersi anche con il canto, lì in quell’impensabile luogo di sofferenze. Jennifer Ehle, con occhi espressivi, è Rosemary Leighton-Jones, una bella giovane donna che non sogna altro che di ricongiungersi con il suo lontano amore. Frances McDormand, che nella versione originale sfoggia un accento assurdo, ha il ruolo di medico nel campo; ed infine Elizabeth Spriggs è Imogene Roberts, una anziana donna che si prende cura di più sul suo cane che di se stessa.


L’opera appassionante di Beresford si pone il compito di illustrare i forti e importanti legami che si formano durante situazioni estreme come questa e, anche se ci sono alcuni momenti strazianti e diverse scene di violenza potenzialmente inquietanti, il film non scende mai al livello del melodramma a buon mercato. Opta invece per qualcosa di più profondo e più significativo permettendoci di seguire un gruppo di personaggi tenaci in un viaggio non facile che punta alla componente spirituale che è nella persona nel suo intimo migliore. Non solo rende omaggio alla volontà umana di vivere, ma è soprattutto la testimonianza dell’efficace potere morale della musica quando è capace di guarire le ferite del fisico e dello spirito. A differenza del classico racconto dei campi di concentramento, non è una storia deprimente come quella dell’Olocausto, perché, seppure diversi personaggi non sopravvivano, l'obiettivo dei giapponesi era la punizione e l’umiliazione, non il genocidio.

Bruce Beresford ci ha abituati in questi lunghi anni di regie ad alti e bassi, sbagliando ogni tanto qualche film, ma questa volta, merito anche dell’eccellente gruppo di attrici di cui ha potuto disporre, ha alzato notevolmente la media qualitativa del suo lavoro.






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