Parlami di te (2018)
- michemar

- 21 mar 2023
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 7 lug

Parlami di te
(Un homme pressé) 2018 commedia 1h40’
Regia: Hervé Mimran
Soggetto: Christian Streiff (J'étais un homme pressé: AVC, un grand patron témoigne)
Sceneggiatura: Hervé Mimran
Fotografia: Jérôme Alméras
Montaggio: Célia Lafitedupont
Musiche: Balmorhea
Scenografia: Nicolas de Boiscuillé
Costumi: Emmanuelle Youchnovski
Fabrice Luchini: Alain Wapler
Leïla Bekhti: Jeanne
Rebecca Marder: Julia
Igor Gotesman: Vincent Houbloup
Clémence Massart: Violette
Yves Jacques: Eric
Micha Lescot: Igor
Frédérique Tirmont: Aurore
Evelyne Didi: Annie
Fatima Adoum: Nassima Derghoum
Gus: Sam l'autista
TRAMA: Un uomo d'affari di alto profilo ha lasciato scadere la sua vita personale a favore del successo aziendale. Quando subisce un grave ictus, si ritrova a zero e impara a ricostruire la sua vita con l'aiuto della sua famiglia e di una terapista.
Voto 6,5

Alain è un uomo d'affari costantemente pressato, potente e rispettato. Il suo tempo è prezioso e non gli piace perdersi in cose di poco conto. Nella sua vita non c'è nemmeno posto per il divertimento o per la famiglia. Un giorno, però, un malore cambia il suo modo di vivere. Durante la sua permanenza in ospedale, la giovane logopedista Jeanne lo aiuta a prendere coscienza della situazione e a capire che per rimettersi in piedi deve prima di tutto imparare ad avere pazienza e a concedersi del tempo tutto per sé.
Una lezione di vita? Sicuramente, ma solo lievemente drammatica, perché, come amano i francesi, viene esposta con leggerezza, umanità e umorismo. A raccontare questa storia vera - tratta dalla autobiografia di un vero dirigente d’azienda, Christian Streiff, che era stato, come il protagonista, un amministratore delegato (un CEO, come si dice oggi) di due importanti aziende, la Airbus e la PSA Peugeot Citroën - è il regista francese Hervé Mimran, che per la prima volta si cimenta con una delle sue solite commedie ma, stavolta, ricavata da una reale vicenda che ha un sapore agro-dolce.

Si parla di un uomo indaffarato, troppo occupato dalla vita frenetica di dirigente, che non ha tempo né per sé, né per qualche hobby per distrarsi, né soprattutto per la famiglia, che trascura bellamente avendo la mente sempre presa dalle responsabilità che ha nell’azienda automobilistica dove lavora. Nel periodo che lo osserviamo lo è ancora di più, trovandosi alla vigilia della presentazione di un modello importante e determinante per il futuro della ditta: un’auto ibrida. È stanco ma non dà retta ai primi segnali di allerta del suo corpo e quando sopraggiunge un ictus (proprio come racconta nel libro l’autore del soggetto) si ritrova con un grave deficit cognitivo, di quelli che colpiscono coloro i quali soffrono di ipertensione o che non hanno uno stile di vita sano. La mancanza di ossigeno al cervello, come si sa, ha a volte ripercussioni a livello motorio che sono spesso irreversibili, ma nella sua sfortuna, Alain ha conseguenze soltanto nelle aree del linguaggio e della memoria. Questo è davvero un paradosso per il nostro personaggio, abituato ad essere un uomo di potere sempre in movimento, poco attento agli altri, che non dice mai grazie e che è solito vedersi obbedito non appena apre bocca. Rimasto vedovo e affiancato da una figlia che studia all’università, a cui dedica ben poco della sua vita, trascorre la sua vita sempre e solo lavorando. Ma dopo il colpo subito, si ritrova, ironia della sorte, dipendente dagli altri e privato di ciò che lo rendeva unico: il suo modo di parlare e la sua capacità di brillare attraverso i suoi discorsi e le sue idee.

Ora balbetta, si lancia in frasi il cui significato sfugge a tutti quelli che lo circondano, mescola allegramente le sillabe e il significato delle parole, dando vita a scene molto divertenti, nonostante la tragicità della situazione. Alcuni lo prendono quasi in giro, come la sua cameriera, mentre altri non prestano attenzione, come i suoi dipendenti, che vengono ad allestire l’ufficio a casa sua. Se immaginiamo Fabrice Luchini nei panni di Alain si intuisce subito che genere di personaggio sia, con i suoi sguardi furbetti, la espressività del suo viso, a cui si potrebbe anche credere poco per un ritratto autoritario e scortese impresso su di lui e difatti l’attore si esibisce con una obbligata sobrietà sotto la sua naturale verve, ed è soprattutto nel suo ruolo di convalescente che eccelle, con l'occhio scintillante di curiosità. L’esperienza metterà l’uomo a confronto con due persone determinanti per la sua riabilitazione.

La prima è senz’altro la logopedista Jeanne (Leïla Bekhti), professionista seria e gentile, e poi con Vincent (Igor Gotesman), un infermiere che ama lo scherzo, sempre allegro e ottimista che minimizza ogni situazione. Jeanne diventerà la stampella di Alain, colei che gli reinsegnerà le parole e gli fornirà i trucchi per ritrovarsi nel labirinto delle associazioni di idee. Quella che gli restituirà la fiducia, aspetto molto importante. E qui avverrà il secondo paradosso quando quest'uomo, che è rifiorito lontano dal suo lavoro, scopre la bellezza e la soddisfazione dell’essere disoccupato, l'ozio, ma soprattutto il tempo per guarire, vivere e portare a spasso il suo fedele cane. Impara, in poche parole, a riconnettersi con se stesso, con gli altri ma soprattutto con la figlia che fino ad allora aveva troppo trascurato. Tutto miracoloso? Beh, non proprio, e sarebbe stato assurdo, anche per un film che vuole essere generoso. Che uno sia un uomo di potere o no, anche se è piccolo di fronte a un tale incidente della vita così grave, non ne esce trasformato fino a questo punto e infatti non cambia moltissimo, ma è pur sempre un passo avanti quello di aver capito meglio come vivere e l’importanza del prossimo. In fondo, il film mostra la trasformazione un po' troppo radicale di un uomo di potere diminuito da un male, che riesce a ricostruirsi e a darsi una nuova possibilità.
E poi c’è un altro aspetto da considerare, quello familiare. Tanto da poter affermare che il protagonista è sì Alain, ma lo è anche l’evoluzione del rapporto tra il padre e la figlia Julia, che qui il regista segue di passo in passo, dimostrando ancora una volta come sia tenace il legame che può sentire una figlia verso il genitore maschio. La mamma è la mamma, ma con il papà il rapporto è speciale, specialmente se la madre non c’è più. Ed infatti il regista ama presentare con cura anche questo lato effettivo molto importante.

Lo schema indubbiamente è un po’ prevedibile e lo si intuisce sin dalle prime volte che l’uomo incontra le persone che lo aiuteranno, spostando il baricentro del dramma verso la commedia, costruita sui divertenti equivoci dialettici che scaturiscono dalle conseguenze della malattia durante la convalescenza, in primis lo scambio delle parole sbagliate (tecnicamente: malapropismi) e i battibecchi proprio comici con l’infermiere. Elementi che in una commedia francese immancabili, soprattutto con attori in ottima forma. Ad iniziare dall’ineffabile Fabrice Luchini, impareggiabile in ruoli come questo, e per finire alla bellissima sorpresa che è Leïla Bekhti, ragazza talentuosa: entrambi bastano a impreziosire ogni dialogo, ogni scena.
Film piacevole, niente di eclatante, sicuramente ben recitato.










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