Per primo hanno ucciso mio padre (2017)
- michemar

- 9 feb 2020
- Tempo di lettura: 4 min

Per primo hanno ucciso mio padre
(First They Killed My Father) Cambogia/USA 2017 biografico 2h17’
Regia: Angelina Jolie
Soggetto: Loung Ung (First They Killed My Father)
Sceneggiatura: Loung Ung, Angelina Jolie
Fotografia: Anthony Dod Mantle
Montaggio: Xavier Box, Patricia Rommel
Musiche: Marco Beltrami
Scenografia: Tom Brown
Costumi: Ellen Mirojnick
Sreymoch Sareum: Loung Ung
Kompheak Phoeung: Pa
Socheata Sveng: Ma
Dara Heng: Meng
Chenda Run: Chou
Kimhak Mun: Kim
Sreyneang Oun: Keav
Sothea Khoun: Monkey King
TRAMA: Un'indomita bambina cambogiana e la sua famiglia lottano per rimanere insieme e sopravvivere durante il regime dei khmer rossi all'indomani della guerra del Vietnam.
Voto 7

Angelina Jolie, che sta imparando passo dopo passo il mestiere non facile di regista e mi pare stia decisamente migliorando, al suo quarto impegno lascia fisso l’obiettivo puntato su violenza e cattiveria dell’uomo che ama far la guerra. A prescindere da un mediocre film parecchio intimistico (premonitore o preannunciatore dei suoi disguidi matrimoniali) ci aveva prima mostrato la brutalità con cui furono trattate le donne nella guerra balcanica, per poi passare sui percorsi dei soldati americani ed in particolare di Louis Zamperini, atleta olimpico, durante la Seconda guerra mondiale, in cui fu prima disperso e poi prigioniero dei giapponesi. Eccoci stavolta immersi nella terribile tragedia di una famiglia cambogiana (presa come simbolo di tutte le famiglie di quel posto e di tutto il mondo) sotto il regime dei feroci khmer rossi, tramite un film girato sulla base della vera vita della protagonista ed oggi scrittrice negli USA Loung Ung, la quale ai tempi degli avvenimenti narrati aveva solo cinque anni. La guerra cambogiano-vietnamita, indicata anche come terza guerra d'Indocina, fu un lungo conflitto che interessò dall'aprile del 1977 all'ottobre del 1991 il territorio della Cambogia e le zone limitrofe a questa di Vietnam e Thailandia; il conflitto ebbe origine dalle dispute territoriali esistenti tra Cambogia e Vietnam: inizialmente su piccola scala, gli scontri di confine tra le forze armate delle due nazioni e le incursioni transfrontaliere si trasformarono in una guerra aperta, culminata con l'invasione vietnamita della Cambogia e la sua completa occupazione. Proprio di queste ultime vicende belliche narra il film.

Per dare maggior efficacia alla drammaticità della trama, basata come detto sul libro autobiografico Il lungo nastro rosso della stessa protagonista e sceneggiata a quattro mani assieme alla regista, la Jolie sceglie la visione soggettiva della bambina, che ci conduce, più che per mano, attraverso i suoi occhioni spalancati e terrorizzati attraverso la fitta vegetazione e i poveri villaggi di quei posti. Lo sguardo della piccola Loung è il nostro, ciò che lei vede ce lo trasmette in tempo reale, l’obiettivo della macchina da presa la inquadra incessantemente sin da quando il padre esorta tutta la famiglia numerosa a raccogliere le cose indispensabili e scappar via dalla bella e confortevole casa a causa dell’occupazione dei soldati in divisa nera, i khmer rossi. È una migrazione che si trasforma in un totale disgregamento della bella famiglia, prima in un campo di lavoro, poi divisi in più posti. I ragazzi adolescenti e le più piccole, data la loro età, non riescono neanche a realizzare la tragedia che avviene attorno a loro e nell’ambito stesso della famiglia: troppo traumatico è quello a cui assistono impotenti, troppa violenza vedono i loro occhi non abituati. La separazione traumatizzante prima dal padre (da cui il titolo) poi dalla madre segna il confine tra la normale fanciullezza di una bimba e la forzata e immatura crescita psicologica che la obbliga a sapersi destreggiare tra mille difficoltà. Loung osserva, assimila, impara e nonostante la tenera età capisce e registra tutto nella mente e non lo scorderà mai più.

Come una nomade, come un automa, a volte sola, in altre occasioni in compagnia della sorella appena più grande, vaga tra campi di lavoro e campi profughi, da una capanna ad un riparo di fortuna, cibandosi di brodaglie annacquate dalla pioggia e serpenti arrostiti su un fuoco di fortuna. Mai pace dal giorno della precipitosa fuga dalla casa in città, mai un giorno senza violenza, perfino addestrata alle armi da istruttrici invasate dalla dottrina politico-militare del Partito Comunista di Kampuchea, chiamato anche Angkar con grande orgoglio. Tutto per lei è incomprensibile, nella medesima misura in cui siamo anche noi spettatori inebetiti da tanta violenza verbale e fisica. Immedesimandoci, possiamo avere l’idea di cosa vuol dire per un bambino vedere tanta crudeltà e saperla metabolizzare per non impazzire: è forse questo il messaggio che Angelina Jolie ci ha voluto far arrivare, lei che ha tanti figli partoriti o adottati, a cominciare dal figlio più grande che è appunto cambogiano e che è stato addirittura in questa occasione co-produttore del film.

La piccola attrice Sreymoch Sareum è bravissima e svolge il suo compito con grande perspicacia, trasmettendoci le sue emozioni con la drammatica fissità del suo sguardo, in cui leggeremo per tutto il film l’orrore dell’uomo allorquando imbraccia un’arma e viene imbevuto delle dottrine politiche più ottuse che seminano odio tra le genti. Si avverte molto bene il pericolo che la fragilità della bambina avrebbe potuto subire una tale “educazione” fino ad assorbirla e adeguarsi all’ambiente. Per fortuna la piccola Loung saprà resistere e sopravvivere fisicamente e mentalmente alla tragedia, fino a diventare da adulta testimone e narratrice dei tragici avvenimenti.
Angelina Jolie sta imparando, per lei è un passo avanti rispetto ai precedenti lavori dove dimostrava ancora impreparazione. Non è che questo sia un capolavoro, anzi forse dimostra una prova diligente e troppo scolastica, ma io trovo che se la sia cavata abbastanza bene, perché non era facile ricostruire le scene di guerra, soprattutto in una natura così selvaggia e inospitale come la giungla cambogiana. Merito anche della eccellente fotografia di Anthony Dod Mantle. Apprezzabili sono anche le diverse scene di movimento e il mio giudizio è nettamente positivo, come d’altronde sono le ottime intenzioni di partenza. In fondo, dobbiamo vederle come il prolungamento della sua costante azione umanitaria che svolge con autentica e meritevole passione in tutto il mondo, lì dove c’è bisogno, dall’Asia all’Africa.






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