Piccolo grande uomo (1970)
- michemar
- 9 feb
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 24 mar

Piccolo grande uomo
(Little Big Man) USA 1970 western/avventura 2h19’
Regia: Arthur Penn
Soggetto: Thomas Berger (romanzo)
Sceneggiatura: Calder Willingham
Fotografia: Harry Stradling Jr.
Montaggio: Dede Allen
Musiche: John Hammond
Scenografia: Dean Tavoularis
Costumi: Dorothy Jeakins
Dustin Hoffman: Jack Crabb
Chief Dan George: Cotenna di Bisonte
Ruben Moreno: Ombra Silenziosa
Martin Balsam: Merriweather
Richard Mulligan: generale George Armstrong Custer
Faye Dunaway: Louise Pendrake/prostituta Lulù
Jeff Corey: Wild Bill Hickok
Amy Eccles: Raggio di Luna
Kelly Jean Peters: Olga Crabb
Carole Androsky: Carolina Crabb
Robert Little Star: Piccolo Cavallo
Cal Bellini: Orso Giovane
Steve Shemayne: Sole che Scotta
James Anderson: sergente
Jess Vint: tenente
Alan Oppenheimer: maggiore
Thayer David: reverendo Jonah Pendrake
Philip Kennealy: Kane
Jack Bannon: capitano
Norman Nathan: Pawnee
Alan Howard: Jack adolescente
Ray Dimas: Jack bambino
TRAMA: Jack Crabb è cresciuto allevato da un capo Cheyenne, dopo che un pellerossa lo salvò in seguito a un attacco di predoni. Divenuto adulto, prova a vivere nella società dei bianchi e finisce arruolato tra i soldati di Custer; fuggito dopo un assurdo e inutile massacro di donne e bambini indiani, riprende la divisa solo per poter uccidere il generale, ma a Little Big Horn i guerrieri Sioux lo precedono: lui sarà l’unico superstite della battaglia.
VOTO 8,5

Chiariamolo subito: la trama su esposta, anche se prospetta tante avventure, è solo una sintesi fin troppo concisa di tutte le traversie, positive e negative, che questo piccolo ometto affronta nella sua vita, una tale infinità di avvenimenti che non si riesce a memorizzarli tutti. Un uomo dalle mille vicende continuamente rimbalzando tra la società dei bianchi e quella dei nativi americani, dei Cheyenne per la precisione, i quali ogni volta che ritorna in mezzo a loro – per i più svariati motivi e modalità – lo accolgono come un vero pellerossa. Merito dell’anziano saggio e simpaticissimo Cotenna di Bisonte, il capo della tribù, che sin dal primo momento lo ha accettato nella sua famiglia. Jack lo chiama nonno ma lui lo considera sempre come un figlio, ripetendogli costantemente la frase che esprime tutta la contentezza nel rivederlo: “Il mio cuore si libra come un’aquila”. Sempre, ogni volta, tanto è l’affetto, ricambiato, che il vecchio prova per lui. Lo ha ribattezzato Piccolo Grande Uomo, alla pari dell’eroe degli Esseri Umani (tali si definiscono) che non si volle arrendere ai nemici Pawnee in una tragica battaglia, occasione che passò alla storia con la frase: “Oggi è un buon giorno per morire”. Ehi yehi ye Ehi yehi ye Ehi yehi ye Ehi yehi ye Ehi yehi ye Ehi yehi ye Ehi yehi yeeeeeeeeeee

Se nel 1962, John Ford aveva posto una pietra miliare nel western con un’opera crepuscolare come L’uomo che uccise Liberty Vance, meno di un decennio dopo l’industria cinematografica statunitense sentì la necessità, scaturita anche e soprattutto dopo la sterzata importante che aveva dato al genere Sergio Leone con il celebre trittico del dollaro, di cambiare visione e di riabilitare il popolo dei pellerossa tanto ingiustamente maltrattati sino a quel momento. Loro, per tradizione e comodità, razzismo e supremazia bianca, erano considerati dei selvaggi, quando invece, come tutti i popoli che abitano la terra nelle varie regioni, hanno le loro memorie, le loro consuetudini, la loro religione. Ovvio, c’è la buona e la cattiva gente, ma proprio come tra i bianchi. Ed ecco, quindi, la rivoluzione: questo epico e picaresco film del grande Arthur Penn, poi, l’indimenticabile Soldato Blu, Un uomo chiamato cavallo, e nei tempi più recenti il meraviglioso Balla coi lupi e L’ultimo pellerossa, film per la TV. Era perciò il momento di cambiare lo sguardo su un popolo nativo di grande dignità che fu volutamente sterminato per liberare le terre da dare ai coloni. Fenomeno che si ripete periodicamente nella Storia.

La dimostrazione che gli indiani erano brava gente deriva da come viene trattato il piccolo grande protagonista Jack Crabb (Dustin Hoffman): ogni volta che si ritrova tra i bianchi viene puntualmente bistrattato, è un ubriacone di prima categoria, vende con Merriweather (Martin Balsam) intrugli che fanno, a sentir loro due, guarire da ogni tipo di malattia (figura tipica nel West); oppure lo vediamo diventare un pistolero comicissimo di nero vestito che imita il mitico Wild Bill Hickok (Jeff Corey), pronto a sparare anche se non becca mai nulla; preso a calci, adottato da un pastore protestante sposato con una delle più conturbanti Faye Dunaway; e così via. Invece, quando ricapita per l’ennesima volta nella tribù - pure per la disperata ricerca della moglie svedese, rapita a lui dai suoi amici rossi perché non riesce mai farsi riconoscere vestito con abiti civili – a cominciare dall’affettuoso capo tribù e finire a fratelli pellerossa, questi, tutti, ormai lo accolgono come un vero indiano, abitando nel tepee di quello che lui ritiene ormai il nonno. E questo succede fino alla fine, dopo un andirivieni innumerevole tra i villaggi dei bianchi e i villaggi del Cheyenne, quando capisce che si troverà a suo agio e apprezzato per quello che è solo con gli indiani, i saggi abitanti della Natura che rispettano. Nel frattempo, “In tutti quegli anni, fucili a ripetizione contro archi e frecce, Non ho mai capito”, dice Crabb all’intervistatore, “come i bianchi potessero vantarsi di vincere con quel tipo di disparità.”

La prima sequenza è quella dell’intervista che un giornalista e studioso raccoglie con le testimonianze dei diretti interessati, registrate su un apparecchio a nastro, mentre il rugosissimo Jack comincia a raccontare le sue mille avventure. Dice che 111 anni prima, quando aveva solo 10 anni (ci pensate? lui ha ora 121 anni!) ed è l’unico superstite della strage di Little Bighorn (ancora little big, come lui è stato chiamato dai Cheyenne, perché piccolo e minuto ma coraggioso), luogo nefasto per i soldati del mitico Settimo Cavalleggeri, colpevoli, con le maggiori responsabilità di quel pazzo del generale George Armstrong Custer (Richard Mulligan), di aver sterminato la sua amata tribù senza risparmiare le donne e i bambini come promesso. Ed allora lui medita vendetta portando l’esercito nel tranello di quel luogo passato alla Storia. Perché si salva? Semplice: riconosciuto ancora una volta dai uno dei suoi fratelli indiani, questi lo avvolge ferito in una coperta e lo riporta per l’ennesima volta a Cotenna di Bisonte (Chief Dan George, che simpatia!). E così il film di Arthur Penn si snocciola con tanti flashback narrati dal vecchio davanti al microfono del registratore. Su tutto aleggia il non facile processo di integrazione tra nativi americani e coloni, a causa specialmente dei tanti prevenuti bianchi che vedono gli indiani solo dei selvaggi. Che invece vivono in armonia con la natura, credendo che tutto il mondo sia retto dal Grande Spirito e sopravvivono con la caccia alla selvaggina catturata dai guerrieri della tribù. Questi ultimi hanno un patrimonio di valori improntato al rispetto e la lealtà, anche verso i nemici.

Crabb abbellisce le sue storie con grande arguzia e iperboli per ravvivare la storia della sua vita per il giornalista. Questo ricordo di vita inizia quando lui e la sua famiglia arrivano nel West in carrozza trainata da cavalli quando ha solo 9 o 10 anni. La carrozza viene attaccata da indiani predoni. Una precisazione: il film descrive due tribù di indiani. Una tribù malvagia e malvagia, quella dei Pawnee e una tribù gentile non malvagia chiamata Cheyenne. I suoi genitori vengono massacrati dai Pawnee nell’attacco e, dopo essersi nascosto, viene scoperto e catturato dai Cheyenne. La sua adolescenza e il raggiungimento della maggiore età avvengono mentre cresce con i Cheyenne. Queste prime scene della cultura indiana sono sicuramente le parti migliori del film. Il mondo raffigurato è un’esistenza amorevole con la natura che trasuda rispetto. Il nemico dei Cheyenne non sono solo i Pawnee, ma anche i coloni bianchi che hanno invaso la loro terra. I Pawnee, come gli indiani cattivi, sono ritratti come collaboratori contro il loro stesso popolo. Durante il racconto della sua vita, Jack finirà per essere riportato nel mondo dei coloni e poi di nuovo nel mondo degli indiani. Questo gli succede in più di un’occasione. Mentre vive come un uomo bianco, si cimenta in molti stili di vita, da pistolero a imprenditore e senzatetto ubriaco. Lavora anche come esploratore per il famigerato generale Custer, e la sua affermazione di essere l’unico bianco sopravvissuto tra i bianchi (come anche l’ultima battaglia del generale) a Little Big Horn, aggiunge interesse storico alla storia della sua vita.
Credo che questo sia uno dei primi film che lancia la stragrande maggioranza dei personaggi indiani come veri nativi americani. L’attore Dan George era un vero capo indiano del Canada occidentale che ha iniziato a recitare in ruoli indiani nella TV canadese. Dopo il suo ruolo in questa pellicola, sarebbe stato per sempre etichettato come un saggio leader indiano. Dal momento che era un vero capo nativo canadese, la sua performance qui come leader tribale suona vera, facendo sembrare le sue divagazioni filosofiche più illuminanti di quanto non siano in realtà. È perfetto come Cotenna di Bisonte, (Old Lodge Skins, nell’originale) che parla in un linguaggio poetico di filosofia e vita. Il suo grande viso si illumina quando scoppia in un sorriso, cosa che fa ogni volta che si riunisce con Jack. Il modo intelligente con cui il suo personaggio è rappresentato è uno degli aspetti che lo fa brillare. In tutto il film, gli indiani nativi sono mostrati come più umani e degni dei coloni bianchi, anche se sono si verificano massacri da entrambe le parti.
Dustin Hoffman, dal canto suo, infonde una trascinante empatia in un personaggio che in realtà non ha virtù chiare. È un pistolero che però non sopporta la vista del sangue, un combattente indiano che è un codardo, uno scout che guida le sue truppe militari in una trappola e un uomo d’affari sfruttato dal suo partner ladro. Non è né coraggioso né onorevole e avrebbe difficoltà a rivendicare qualsiasi risultato della sua vita. Anche lui è un sopravvissuto e rappresenta in concreto un esempio di come cavarsela nel selvaggio West e in quel posto, spesso inospitale per i più deboli, non erano l’intelligenza o l’abilità che premiavano l’iniziativa ma piuttosto la fortuna e le circostanze, gli elementi, cioè, più importanti per la sopravvivenza in quei tempi pericolosi. La straordinaria performance eccentrica e caotica di Hoffman permette al suo personaggio insignificante, intrappolato tra due culture diverse e opposte, di esaltare la narrazione.
La vita di Crabb è descritta come una serie di racconti, come l’infanzia con i Cheyenne, come pistolero, come uomo d’affari, come esploratore nell’esercito di Custer e altro ancora. Le storie sono anche piene zeppe di personaggi interessanti, come la vedova del predicatore ora divenuta prostituta interpretata da Fay Dunaway, un venditore ambulante di truffe farmaceutiche interpretato da Martin Balsam e l’anziano Wild Bill Hickok interpretato da Jeff Corey. Questi personaggi, insieme all’antieroe di Hoffman, infondono una grande quantità di umorismo che non ci si aspetterebbe in un western classico. E questo non lo è per nulla! Ci sono persino momento da battute, mi si passi, da cabaret: “Io ho una moglie e quattro cavalli!”, e lui (da quando deve soddisfare le voglie anche delle sorelle della sua nuova moglie indiana “Io quattro mogli e un cavallo

Arthur Penn ha il gran pregio di compiere un ottimo lavoro nel mescolare diversi generi all’interno del suo film: dallo studio dei personaggi, tutti ben descritti, al dramma sociale, alla commedia sciocca e all’azione violenta, facendone uno dei pochi film in grado di attraversarli tutti. Questo risultato lo rende un film molto divertente. Per non parlare di come viene disegnato il generale Custer: presuntuoso, vanitoso, arrogante, un vero pallone gonfiato. Ridicolizzato dalla sceneggiatura di Calder Willingham. Così lo presenta il regista, permettendo a Jack di osservarlo e decidere come farlo cadere nell’imboscata, dopo aver inutilmente cercato il coraggio di pugnalarlo nella sua tenda.
Che sia chiaro: qui Dustin Hoffman, che veniva dai successi de Il laureato (la scena in cui la signora Pendrake si toglie le calze nel bordello davanti a Jack è un omaggio alla famosa scena presente nel film) e Un uomo da marciapiede, qui è un mostro di bravura!

Un’ultima precisazione: i termini che ho utilizzato (Esseri Umani, la frase con cui il capo accoglie il nostro eroe, i nomi dei guerrieri e altre traduzioni) sono quelli della versione originale che in italiano subiscono qualche variazione. Perché il particolare curioso è che bianchi e rossi parlano tutti solo in inglese!
Bellissimo!

Riconoscimenti
Premio Oscar 1971
Candidatura al miglior attore non protagonista a Chief Dan George
Golden Globe 1971
Candidatura al miglior attore non protagonista a Chief Dan George
BAFTA 1972
Candidatura al miglior attore protagonista a Dustin Hoffman
Candidatura alla miglior colonna sonora
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