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Rendition - Detenzione illegale (2007)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 24 apr 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 21 giu 2020


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Rendition - Detenzione illegale

(Rendition) USA 2007 thriller 2h2'


Regia: Gavin Hood

Sceneggiatura: Kelley Sane

Fotografia: Dion Beebe

Montaggio: Megan Gill

Musiche: Paul Hepker, Mark Kilian

Scenografia: Barry Robison

Costumi: Michael Wilkinson


Reese Witherspoon: Isabella El-Ibrahim

Omar Metwally: Anwar El-Ibrahim

Meryl Streep: Corrine Whitman

Jake Gyllenhaal: Douglas Freeman

Alan Arkin: senatore Hawkins

Peter Sarsgaard: Alan Smith

J.K. Simmons: Lee Mayers

Igal Naor: Abasi Fawal


TRAMA: Durante un volo dal Sudafrica a Washington, il chimico di origine egiziana Anwar El-Ibrahimi scompare misteriosamente. Sua moglie, una cittadina americana, tenta di scoprire dove sia finito. In realtà, Anwar - sospettato di terrorismo - è detenuto dalla Cia in un luogo segreto, dove viene sottoposto a un interrogatorio assolutamente irregolare.


Voto 7


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Succede che si pensa di stare a guardare un thriller di terrorismo e spionaggio e invece si entra inconsapevoli nel tunnel di un incubo vissuto da parte di un comune cittadino che si ritrova, ignaro di quello che gli sta accadendo, al centro di un affaire molto ma molto più grande di lui. E che soprattutto non lo riguarda essendo non solo innocente ma totalmente all’oscuro dei fatti di cui lo accusano i servizi segreti. E magari i suoi guai fossero limitati alle semplici accuse infondate. Succede infatti che, come da prassi consolidata da millenni, la persona sospettata viene bellamente torturata col preciso scopo di estorcergli in primis la confessione di aver partecipato ai fatti in questione e poi i nomi dei suoi complici. Maggiormente quando questi fatti riguardano atti di terrorismo internazionale, in cui le forze coalizzate si uniscono nella comune battaglia, con la facile conseguenza che le parti interessate alle informazioni da ottenere sono più di una: un’alleanza che tende solo al risultato preposto.


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Questo almeno in tempi normali, se così si possono definire e se mai esistono nel campo delle indagini che puntano a scoprire nemici della patria e i relativi progetti. In tempi, invece, di alto allarme per terrorismo - concetto che negli ultimi decenni ha allertato vieppiù la vigilanza delle forze preposte alla sorveglianza della sicurezza – l’uso illegale (se mai si potrebbe legalizzare questa abominevole pratica) della tortura è aumentato. Immaginiamo poi quale livello di reazione e nervosismo si sia raggiunto dopo il grave episodio delle Twin Towers dell’11 settembre 2001, dopo il quale i nervi costantemente a fior di pelle degli organismi statunitensi della difesa e sicurezza li hanno condotti a comportamenti abnormi e violenti, ovviamente tenuti segreti e mai ammessi neanche nel caso di eventuali indagini a posteriori. Casi che, nel loro linguaggio, vengono definiti “classificati”, in altri termini “secretati”. Silenzio assoluto. Come fossero mai successi. Terra bruciata.


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Più o meno è ciò che succede allo sfortunato eroe di questo film, Anwar El-Ibrahim, un ingegnere chimico di origine egiziane ma ormai statunitense a tutti gli effetti, con tanto di villetta nel bel viale elegante di Chicago, una bella moglie bionda e americana, un maschietto e un bimbo in arrivo già quasi pronto nella pancia della mamma Isabella. Lui è al rientro da un convegno tenutosi a Città del Capo e la sua famigliola lo attende impaziente, ed invece durante lo scalo a Washington è atteso dalla CIA, dopo che a Marrakesh si è verificato l’ennesimo attentato suicida con molte vittime ad opera di un giovane fondamentalista soldato jihadista. Ovviamente, per come vengono raccontati i fatti nel film di Gavin Hood risulta facile per lo spettatore intuire l’innocenza e l’estraneità di quell’uomo rispetto ai fatti imputatigli, ma sia gli agenti americani che il servizio segreto del paese in cui è stato commessa la strage sono convinti delle responsabilità dell’ingegnere e passano decisamente ai fatti. Questi consistono in pratiche di torture pesantissime, con l’utilizzo perfino della corrente elettrica e del famigerato waterboarding. Supplizi disumani che inducono normalmente gli uomini o a parlare e quindi confessare le colpe o a inventarsi tutto di sana pianta ammettendo fatti e conoscenze non veri pur di non soffrire più in quella maniera crudele. Si effettuano riscontri? Raramente, l’importante per quei funzionari è vantare dei risultati e salvare la faccia e la carriera nei confronti dei superiori, che pressano sempre per ottenere conclusioni da vantare. Nella fattispecie, dagli USA guardano in maniera distaccata e senza il minimo riguardo verso un cittadino maltrattato – giustamente o no, è tutto da dimostrare ma non hanno prove – e alla moglie che sta urlando per ottenere giustizia o almeno informazioni. No, nessuna giustificazione, solo indifferenza ed espressioni insofferenti.


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È un film che periodicamente torna di tremenda attualità, perché è un'attività che non cessa mai, ed è soprattutto un thriller di denuncia, specialmente per la cattiva e frequente pratica americana, che non sarà certamente l'unico stato a praticare (vedesi il caso Regeni) di "trattare" in maniera particolare i sospettati di terrorismo. Ci fa inorridire, ma la sicurezza nazionale è un obiettivo primario, come dicevo più su. Rendition – “traduzione” in questo caso “consegna”, che è quella che accade infatti nella trama – è un’opera che fa impressione, che colpisce duro anche se il regista evita scene molto violente, fa più intuire che altro, ma mostra senza indulgenza la crudeltà e la insensibilità dei funzionari di polizia. Ma ciò che colpisce maggiormente è la superficialità di Corrine Whitman, la responsabile americana da cui dipende tutta l’operazione. Gavin Hood gioca a far rimbalzare la trama continuamente tra la battaglia personale della moglie del prigioniero, Isabella, nelle stanze dei senatori e i tragici avvenimenti accaduti in Marocco, dove si consuma in concomitanza e collegata un altro tipo di tragedia, che riguarda direttamente il capo della polizia locale, Abasi Fawal, che è anche l’uomo che dirige in prima persona l’infamante interrogatorio e che deve decidere del destino dell’ingegnere. Solo l’agente CIA Douglas Freeman può aiutarlo, rendendosi conto del tragico errore che si sta compiendo.


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Il cast che dirige il regista è di eccellente levatura: Reese Whiterspoon (Isabella) è davvero commovente nel ruolo straziante della moglie; Alan Arkin, nei panni del senatore Hawkins, gioca con la sua enorme esperienza di attore di lungo corso, con cui sa essere cinico e allineato alla politica dominante; Peter Sarsgaard è apprezzabile come sempre, alla pari del bel Omar Metwally, attore adattissimo nel ruolo dell’ingegnere sotto tortura, essendo sì statunitense ma figlio di un egiziano (e di una olandese); Jake Gyllenhaal è affidabilissimo come ogni volta, anche se sembra molto giovane per essere un analista CIA su un campo difficile, proprio come osserva meravigliata la ferrea Corrine Whitman. Giungo così all’attrice che compare poco nel film ma dà l’ennesima lezione di recitazione da far impallidire tutti gli altri: come sa trasformarsi Meryl Streep a seconda dei personaggi è impressionante e non ci si abitua mai. Basta solo qualche scena e le sue espressioni altere, irritate, infastidite sono uno show irraggiungibile! Le è bastato solo un minimo di trucco femminile (espediente per non abbellirla, credo) e i suoi occhi e la postura del corpo quando deve ascoltare scocciata l’interlocutore di turno fanno il resto e vale il costo del biglietto o del tempo che dedichiamo alla visione.

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Buon film, che a me è piaciuto parecchio, nonostante i tanti pareri opposti. Buon film, che purtroppo può dare solo una minima idea di ciò che succede veramente in tante carceri segrete nei sotterranei che non vedremo e di cui non sapremo mai.



 
 
 

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