Roubaix, una luce (2019)
- michemar

- 19 mag 2021
- Tempo di lettura: 5 min

Roubaix, una luce
(Roubaix, une lumière) Francia 2019 dramma poliziesco 1h59’
Regia: Arnaud Desplechin
Soggetto: Mosco Boucault (documentario)
Sceneggiatura: Arnaud Desplechin, Léa Mysius
Fotografia: Irina Lubtchansky
Montaggio: Laurence Briaud
Musiche: Grégoire Hetzel
Scenografia: Toma Baquéni
Costumi: Nathalie Raoul
Roschdy Zem: comm. Yacoub Daoud
Léa Seydoux: Claude
Antoine Reinartz: Louis Cotterelle
Sara Forestier: Marie Carpentier
Chloé Simoneau: Judith
Sébastian Delbaere: Descamps
Betty Cartoux: De Kayser
Jérémy Brunet: Aubin
Stéphane Duquenoy: Benoit
Philippe Duquense: Dos Santos
Anthony Salomone: Kovalski
TRAMA: A Roubaix, durante la notte di Natale, il capo della polizia Daoud vaga le strade nel tentativo di riportare ordine. L'esperienza gli ha insegnato a riconoscere chi mente e chi no. Al suo fianco vi è anche Louis, appena uscito dall'accademia di polizia. Goffo e facilmente ingannabile, Louis non riesce ancora a leggere bene le situazioni. Daoud e Louis sono chiamati a confrontarsi con l'omicidio di una vecchia donna, per cui vengono fermate due giovani vicine.
Voto 7,5

Qui, tutti i crimini, irrisori o tragici, sono reali
Vittime e colpevoli sono esistiti.
L’azione si svolge a giorni nostri.
È la notte di Natale quando l’auto del commissario Yacoub Daoudattraversa strade buie in cui splendono solo le luminarie festive da un marciapiede all’altro, sugli alberi, sui muri. La notte è rischiarata da un’auto in fiamme, motivo per il quale il poliziotto chiama la centrale per far giungere subito i pompieri, due uomini e la scientifica, immaginando che sicuramente, in quel fuoco, ci sarà un corpo da identificare. Inizia così questo polar sommesso e doloroso, come tutte le pene che gli uomini soffrono nella vita quando è densa di disastri, personali e sociali. Poi arrivano alcune volanti della polizia in una strada dove è stata commessa una violenza, ma il fulcro, il posto dove prima o poi giungeremo è il Commissariato Centrale, sede di Daoud e dei suoi uomini. L’idea di partenza di Arnaud Desplechin, che nella sua carriera si era interessato sono di amori, sentimenti e rapporti tra persone ma totalmente di finzione, tanto da definire il suo I fantasmi d’Ismael “un film che era un vero e proprio fuoco d’artificio di finzione; finzioni ovunque”, è un documentario che gli aveva aperto gli occhi su storie vere, realmente successe, come quella principale che ne diventa l’ossatura portante. I fatti erano veramente successi nella sua città di origine, Roubaix, nel profondo nord, nelle Fiandre Francesi, a due passi dal Belgio, zona di confine e di transito, sommersa da immigrati algerini, polacchi, italiani e portoghesi, quindi con storie di varie antropologie e varie cause sociologiche. Tra le città più povere di Francia, con un altissimo tasso di disoccupazione e, di conseguenza, di criminalità. Il documentario Roubaix, commissariat central, affaires courantes di Mosco Boucault aveva incuriosito, il regista che è andato a fondo e lo ha completato con il personaggio protagonista del commissario.

Un commissariato è un mondo integrato nel mondo, un posto dove affluiscono i mali della zona e forse di tutto la terra, ma è anche un mondo a sé, come un universo a parte, una stazione di arrivo dei treni della vita carichi di tanti avvenimenti luttuosi, criminali e di sparizioni. Un mondo variopinto fatto di uomini senza dimora, di donne che si vendono, di assassini bugiardi, di gente che urla nelle celle in attesa di essere interpellati e poi portati nel carcere. Lì il commissario Yacoub Daoud coordina l’attività dei suoi uomini, incaricandoli di questa o quella indagine: furti, irruzioni con scasso, omicidi. Tra l’altro è appena arrivato un novello, Louis Cotterelle, appena uscito dall’accademia, un giovane dalla faccia pulita, che se prima pregava Dio di non chiamarlo alla vocazione, ora gli si rivolge per ritrovare quella fede seminata alle spalle. Desplechin segue sommariamente i primi casi (uno stupro, una ragazza fuggita di casa, un incendio doloso…), per poi puntare decisamente sulla storia centrale che lo interessa veramente, una sorta di Delitto e castigo coniugato al femminile francese. Se la maggior parte dei casi che interessano i poliziotti riguardano faccende in cui sono implicate anche o principalmente persone di origine magrebina – come d’altronde è l’etnia del commissario -, il fatto in questione è un brutale assassinio di una anziana probabilmente ad opera di due ragazze, Claude e Marie, giovani indigenti, amanti, alcolizzate, ridotte ai margini della vita e della società, che sopravvivono normalmente con piccoli reati, che quella sera si sono introdotte nella casa della vicina Lucette per rubare qualcosa, ma poi lasciandosi trasportare dall’occasione l’hanno uccisa. Le due ammettono con fatica tutto, ma non l’omicidio.

Buona parte del film converge sui vari interrogatori, all’inizio separatamente e poi, come un incidente probatorio, messe a confronto l’una all’altra per scoprire prima di tutto chi mente e poi per farle contraddire o ammettere le colpe. Una specie di redde rationem che secondo la strategia del commissario porterà alla soluzione del caso. Come puntualmente avviene. È in queste fasi che si rivela il film, con sequenze che essenzialmente rivelano l’aspetto umano e filosofico del comportamento delle persone, del senso di colpa che viene rimosso dalla mente, del legame che unisce due donne che hanno abbandonato la società e che prima piangono la loro innocenza, poi si scambiano accuse devastanti. Ad ascoltarle, oltre agli altri poliziotti, c’è sempre Yacoub Daoud, la cui sensibilità umana va oltre la routine quotidiana delle indagini. Interrogatorio dopo interrogatorio, come una spirale che si accentra per giungere al fulcro, la trama, le confessioni parziali, le contraddizioni e le ammissioni si stringono concentriche sulle Claude e Marie, come una trappola inevitabile, come un nodo scorsoio che scivola verso la stretta finale. Paiono monotoni e ripetitivi gli interrogatori ed invece, ogni volta, molti particolari vengono sempre più a galla: prima reclamano la loro innocenza, che non sono state loro a commettere l’assassinio, poi che è stata l’altra, poi ancora che lo hanno commesso assieme. Con lo scorrere dei dialoghi, la macchina da presa di Arnaud Desplechin stringe primi piani che diventano l’essenza del film. Il viso del commissario, ingrandito sullo schermo, è l’espressione del suo carattere, è (come diceva Ingmar Bergman) lo specchio dell’anima e ne descrive la saggezza e la lunga esperienza. Non insiste più di tanto, attende con pazienza l’occasione successiva e mostra tutta la sua compassione e comprensione, si sente partecipe del loro disagio. Forse ricorda i tempi difficili dei suoi primi momenti di immigrato nordafricano in Francia (non ha più parenti, tutti tornati al paese d’origine africano), in quel nord desolato, forse conosce fin troppo bene la fragilità di quella umanità disperata. Sicuramente non giudica ma ascolta. E osserva i visi delle due giovani, anche quelli specchi dell’anima e quindi rivelatori di verità non nascondibili. Yacoub Daoud ha la pazienza e l’umanità che ricorda il più celebre commissario Maigret, ma al contrario di questi non è chiacchierone e socievole ma ha la stessa capacità d’osservazione e di ascolto. In più, pare un personaggio dei romanzi di Georges Bernanos, per l’attitudine a percepire la consapevolezza del male. Gli chiede Marie: “Lei pensa che io sia un mostro?”, lui risponde: “No. Solo un essere umano caduto per strada”. Senza giudicarla. Finita la festa natalizia le luci vengono smontate e la città torna al suo buio naturale. Forse una luce resta ed è quella di Yacoub Daoud.



Regia oculata per un gran film, un polar fortemente connotato in chiave antropologica e sociale che può anche non conquistare immediatamente ma solo quando lo si è percepito fino in fondo, scritto anche dallo stesso autore costruendo efficacemente tutti i personaggi, da quelli principali ai secondari. E lo si apprezza anche quando ci si rende conto della magistrale interpretazione di molto degli attori, a cominciare dall’enorme prova di Roschdy Zem, immenso e Premio César 2019. Credo alla sua migliore prestazione della vita di attore. Non di meno quella delle due ragazze, Sara Forestier e in particolare Léa Seydoux, una delle migliori della sua generazione, bella e dotata artisticamente.






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