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Se chiudo gli occhi non sono più qui (2013)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 26 giu 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

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Se chiudo gli occhi non sono più qui

Italia 2013 dramma 1h45’

Regia: Vittorio Moroni

Sceneggiatura: Vittorio Moroni, Marco Piccarreda

Fotografia: Massimo Schiavon, Andrea Caccia

Montaggio: Marco Piccarreda

Musiche: Mario Mariani

Scenografia: Fabrizio D'Arpino

Costumi: Grazia Colombini

Mark Benedict Bersalona Manaloto: Kiko

Giorgio Colangeli: Ettore

Beppe Fiorello: Ennio

Hazel Morillo: Marilou

Vladimir Doda: Spiro

Ivan Franek: Feliks

Elena Arvigo: prof. Granatelli

Anita Kravos: prof. Giuliani

Stefano Scherini: prof. Macrì

Ignazio Oliva: Jacopo

Igor Sancin: Vesko

TRAMA: Kiko, orfano di padre italiano, vive in Friuli con la madre Marilou, di origine filippina, e il suo nuovo compagno Ennio, un uomo senza scrupoli che recluta lavoratori clandestini per sfruttarli. Nonostante vada ancora a scuola, per aiutare la famiglia è costretto a lavorare nei cantieri di Ennio. Sentendo di appartenere quasi a una casta inferiore per via degli episodi di razzismo di cui è vittima, Kiko trova la sua dimensione ideale nel vecchio autobus abbandonato che ha trasformato nella sua capanna. Un giorno, però, il destino gli riserva una gradita sorpresa: Ettore, vecchio amico di suo padre, si presenta con il desiderio di aiutarlo e prenderlo sotto la sua ala protettiva, dandogli la forza per ribellarsi.


Voto 7


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Tempo fa in TV girava uno spot-progresso sull’antirazzismo e venivano intervistati giovanissimi alunni di chiara provenienza straniera, in pratica la prima o seconda generazione dei nati in Italia da genitori immigrati. Parlavano un perfetto italiano, anzi con forte cadenza locale e rispondevano alle domande fuori campo con naturalezza per dimostrare che per loro siamo tutti uguali. Anzi, direi meravigliati dalle domande che a loro parevano con risposte ovvie. Poi a richieste più stringenti e di eventuali episodi spiacevoli (“alcuni non ti considerano italiano”) si inceppavano e non trattenevano le lacrime. Non potremo mai immaginare, se non stando accanto nella loro vita quotidiana, cosa provano sulle piccole spalle questi poveri fanciulli nelle occasioni di discriminazione. Bisogna proprio essere al loro posto, per capire.


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I primi istanti del film ci introducono in una situazione anomala. Il giovane protagonista, in quel momento ancora un ragazzino attento alle parole del papà Jacopo, rimane affascinato dal suo racconto di astrofisica. “Secondo una delle ipotesi più recenti non c’è stato un solo Big Bang ma tanti, che si ripetono ciclicamente, ogni tre miliardi di anni. Lo sai che è questo? Questo pezzo di meteorite è arrivato dal cielo e la vita sulla Terra è cominciata così. Tanti pezzi, tanto più grossi di questo, e questo è un pezzettino piccolo ma molto importante. Il nostro universo deriverebbe quindi dall’ultima collisione, continuerà ad espandersi all’infinito oppure un giorno comincerà a contrarsi, fino ad implodere su se stesso.” Quel piccolo sasso caduto dallo spazio lo conserverà sempre, come un talismano, come legame indissolubile con il genitore che – in quel momento non poteva prevederlo – avrebbe tragicamente perso. Lo porterà sempre con sé, pronto a cacciarlo dalla tasca nei momenti di bisogno, sicuro dell’aiuto che arriverà dal padre che lo protegge come un Arcangelo. Gli basterà concentrarsi e lanciare l’allarme: Emergenza, emergenza! Proprio come succederà nel negozio di elettronica quando, in procinto di essere denunciato per il furto di un piccolo computer, arriverà un estraneo, mai conosciuto, che lo rimprovererà dichiarandosi zio. Un angelo salvatore.


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Kiko è un bravo ragazzo cresciuto nel nordest italiano da madre filippina, vive male la problematica morte del padre per cause accidentali, rimasto vittima sull’asfalto per colpa di chi non si sa. Andrebbe bene a scuola ma la sua testa è sempre altrove e vede i voti calare perché non riesce più a studiare come vorrebbe. La mamma Marilou è comprensiva ma lascia colpevolmente che il nuovo compagno lo sfrutti come manovalanza assieme ad altri sfortunati clandestini nei cantieri che gestisce, senza minimamente preoccuparsi del reato di caporalato. Il suo rifugio mentale e fisico è un vecchio autobus abbandonato nel boschetto alle spalle dell’area di servizio che gestisce la mamma in cui ospita clandestinamente i muratori immigrati dall’Africa e dall’est europeo alle dipendenze di Ennio. Quel vecchio e scassato filobus è una vera tana riparo per stare in pace con se stesso e riflettere sulla sua vita grama. Impossibile non andare col pensiero a Into the Wild di Sean Penn, in cui il mitico Christopher McCandless trovò giusto in un bus abbandonato il rifugio in mezzo alla neve dell’Alaska. Ecco, quel boschetto è l’Alaska di Kiko.


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La vita gli offre una inaspettata via di fuga, perlomeno psicologica quando incrocia quell’uomo venuto in soccorso, sedicente amico del padre, che lo incoraggia, gli offre l’occasione di interessarsi alla filosofia greca quale base del futuro: non come mezzo per migliorare la media scolastica, bensì per se stesso, per capire la vita e affrontarla con saggezza, così come insegnano da millenni i grandi filosofi greci. Iniziando da uno dei libri della Repubblica di Platone, da cui apprende cosa vuol dire Stato Sociale. Da quell’uomo, Ettore, professore in pensione, che può tanto insegnargli sia di materie scolastiche che di vita, Kiko impara tanto, anche a sapersi gestire da quando è scappato di casa, unico modo per poter crescere libero e consapevole, alzando anche notevolmente il suo rendimento in classe. Ma proprio da Ettore verrà a conoscenza delle circostanze della morte del padre e perché l’ex professore gli si è tanto avvicinato. Sarà un passo avanti anche nel processo di crescita e di maturazione. Nei momenti più drammatici, Kiko si stringerà e si raggomitolerà su se stesso, pensando e autoconvincendosi di non essere più lì, in quella situazione che non sopporta. Se chiudo gli occhi non son più qui. Come la dolcissima cinese de Io sono Li (recensione), che era fuori posto a Chioggia e sognava la sua famiglia lontana.


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Vittorio Moroni, autore anche di documentari, posiziona la macchina da presa sul giovane Mark Benedict Bersalona Manaloto, così vicino che viviamo con lui ogni reazione. Gli riversa addosso il suo sguardo poetico, la delicata melodia delle musiche di Mario Mariani, ricambiato dalla espressività del giovane attore. Poetico è l’approccio del regista ad una storia difficile, poesia è la maniera di seguirlo, suggestivo è il modo di pedinarlo nel fisico e nell’animo. Poesia è intendere il cinema come Vittorio Moroni. Il giovane attore è una sorpresa e non avere più notizie dal 2013, anno del film, è invece una sorpresa in negativo: Mark è superlativo, è perfettamente la faccia da filippino che parla correttamente la lingua italiana, perfino con una certa cadenza romana. Mi piacerebbe vederlo ancora. L’uomo che gli si avvicina è una di quelle figure che amo tanto nel cinema, gli eterni comprimari, i caratteristi, e in Italia ne abbiamo di bravissimi, a cominciare da Giorgio Colangeli, qui gigantesco. Ma gigantesco per davvero. Specialmente nei dialoghi a due con il filippino, sguardo chiaro di Colangeli che scruta Mark, che gli restituisce quello nero pece che la natura gli ha dato. Un attore che bravo lo è sempre stato ma invecchiando sta dando il meglio di sé e queste per lui sono occasioni d’oro. Bravo come sempre il plasmabile Beppe Fiorello, attore per tutti i personaggi.


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Un piccolo piccolissimo film, che si fa ammirare dal primo istante, fino all’epilogo che mostra come gli insegnamenti di Ettore non saranno stati inutili per il promettente Kiko, che ha fatto una promessa importante alla mamma Marilou, quella di riportarla in patria.

Che è sempre una sconfitta per un paese che non è più ospitale.



 
 
 

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Il Cinema secondo me,

michemar

cinefilo da bambino

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