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Selva trágica (2020)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 27 giu 2021
  • Tempo di lettura: 5 min

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Selva trágica

Messico/Francia/Colombia 2020 dramma 1h36’


Regia: Yulene Olaizola

Sceneggiatura: Yulene Olaizola, Rubén Imaz Castro

Fotografia: Sofia Oggioni

Montaggio: Pablo Chea, Israel Cárdenas, Rubén Imaz, Yulene Olaizola

Musiche: Alejandro Otaola

Scenografia: Luis Rojas Luino

Costumi: Samuel Conde


Indira Andrewin: Agnes

Eligio Meléndez: Don Mundo

Gilberto Barraza: Ausencio

Gildon Roland: Gildon

Dale Carley: Cacique

Mariano Tun Xool: Jacinto

Gabino Rodríguez: El Caimán

Shantai Obispo: Florence

Cornelius McLaren: Norm

José Alfredo González Dzul: Campechano

Antonio Tun Xool: Hilario

Eliseo Mancilla: el Faisán

Marcelino Cobá Flota: Lazarito

Mario Canché: Yucateco


TRAMA: Nel 1920, il confine tra Messico e Belize, nel profondo della giungla maya, è un territorio senza legge dove abbondano i miti. Un gruppo di gommisti messicani vi si avventurano in compagnia di Agnes, una bella e misteriosa giovane del Belize in fuga da un matrimonio combinato. La sua presenza suscita tensione tra gli uomini, sempre più in preda a fantasie e desideri. Pieni di nuovo vigore, i gommisti affronteranno il loro destino inconsapevoli di aver risvegliato Xtabay, un essere leggendario che si nasconde nel cuore della natura selvaggia.


Voto 7

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Impossibile non notare che in quasi tutte le pellicole di matrice centro e sudamericana predomina la natura, specialmente quella incontaminata e selvaggia, piena di vegetazione, acque fluviali vigorose e placide, animali di ogni tipo a quattro zampe, a quattro mani, striscianti. Che poi sarebbero i veri padroni di quella giungla. Gli uomini si introducono a volte timorosi dei pericoli, altre volte spavaldi o soprattutto abituati all’idea di entrare in un mondo ostile ma anche a loro vicino. Fa parte del loro vivere, una vasta estensione di terre che li attira perché fonte di materie prime molto richieste i cui ricavi di sfruttamento e vendita producono sostentamento alle famiglie, solitamente molto povere. È un lavoro durissimo e rischioso ma per secoli era (è) l’unica maniera per sopravvivere. Si impara, ci si adegua e magari si cerca di non pensare ai tanti pericoli. Uno dei lavori predominanti all’inizio del XX secolo, periodo in cui si volge la trama del film - ambientata ai confini tra il Messico e l’Honduras Britannico, oggi diventato indipendente dal colonialismo col nome di Belize - era l’estrazione del caucciù dagli imponenti alberi della giungla. Squadre di indigeni che si arrampicavano sui tronchi e con un machete incidevano la corteccia e mo’ di spina di pesce affinché il prezioso materiale cominciasse a sgorgare lentamente e scivolasse nei contenitori posti alla base.

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È in questo ambiente naturale e animalesco che si incrociano le strade di una squadra di uomini al lavoro, ma con intenzione di appropriarsi del notevole quantitativo raccolto e scappare via dal temuto “padrone” che sicuramente li cercherà, e due ragazze locali che sono sfuggite al signorotto inglese che domina nella zona e che le insegue con un paio dei suoi scagnozzi armati, determinato a raggiungerle e se necessario ucciderle. Tre gruppi di persone, quindi, che vagano in una vegetazione proibitiva, tra arbusti intricati e corsi d’acqua, tra piante con spine simili a denti di felini e ruggiti echeggianti che mettono paura. Le due giovani donne, tra cui la protagonista Agnes, bellissima e intemerata, incontrano i lavoratori e cercano protezione dall’inseguitore, ben consce che gli sguardi famelici di quegli uomini che non vedono donne da moltissimo tempo sono anch’essi un pericolo per la loro salute. Ma negli occhi neri ed espressivi della ragazza si legge benissimo che è preferibile l’abuso sessuale alla cattura definitiva da parte del ricco britannico che le vuole raggiungere.

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È un territorio vastissimo, che sembra non finire mai e dove ci si può perdere girando all’infinito nello stesso cerchio, nonostante l’esperienza di chi lo pratica da tempo. È anche un posto che incute rispetto e paura, immenso ma nello stesso tempo claustrofobico, da cui sembra quasi impossibile uscirne. Ciò che spinge gli operai e la donna è per i primi il quintale circa di caucciù che hanno messo sugli esausti cavalli e per la seconda la speranza di affrancarsi dalla schiavitù a cui era sottoposta e di aspirare ad una vita diversa. Come d’altronde è il sogno di quel pugno di uomini che cercano disperatamente di giungere in qualche luogo civilizzato e vendere il bottino a buon prezzo.

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Silenzi appena interrotti da scarni dialoghi, dai suoni della “selva drammatica” che circonda i personaggi e gli spettatori, dagli spari degli inseguitori, dallo sciacquio dei corsi d’acqua, dalle minacciose strida delle grosse scimmie urlatrici che rimbalzano sugli alti rami, dal ruggito del giaguaro. Sono proprio i silenzi che ci raccontano l’avventurosa storia, sono gli sguardi di quegli occhi scuri di uomini disperati, di quella donna risoluta e forte nel carattere, decisa a dare se necessario il proprio corpo pur di salvare l’anima e la mente da una vita fino ad allora mal vissuta. La leggenda narra che una donna iniziò a concedersi agli uomini ma lo spirito dannato di lei, diventato Xtabay, finì per annientare gli uomini sedotti. La Xtabay è un mito Maya yucateco della foresta che attira gli uomini verso la morte con la sua incomparabile bellezza. La giungla diventa così un luogo dello spirito, uno spazio inospitale ma abituale in cui riscattare una vita schiavizzata, un posto che l’uomo vuole sfruttare ma che non riesce a dominare: la “selva” è troppo grande, profonda e misteriosa e dopo le sconfitte che si subiscono – in diversi soccombono per fatica, errori, disattenzione, uccisioni – ci si rende conto che è l’ambiente a prevalere sull’uomo, troppo piccolo rispetto alla grande Natura. L’uomo ferisce gli alberi ma rimane loro prigioniero. Uscirne è un’impresa disumana e indietro non si può tornare, alle spalle c’è solo la vendetta ad aspettare i fuggiaschi.

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Difficile stabilire se sia più pericolosa la natura selva/ggia o l’uomo avido: l’ambiente dell’Universo è lì da sempre, immobile e accogliente se non se ne approfitta e se lo si rispetti, ma le cattive intenzioni umane diventano causa di morte. Soprattutto se la smania approfittatrice scatena una abietta guerra omicida, basata solo sul possesso e sulla vendetta. La giovane messicana Yulene Olaizola firma un film lento e intenso, vischioso come il caucciù, sensuale e afoso, come un noir che non trova futuro, come un thriller ad alta tensione, raccontato molto sui primi piani di uomini dalla pelle scura e cucinata dal sole, sulla cupidigia dell’uomo bianco che vuole affermare la sua falsa superiorità, sulla prorompente bellezza esotica di una protagonista indomabile, che recita col corpo e con il suo viso altero. Il corpo da modella di Indira Andrewin (la ribelle e magnetica Agnes) si erge su tutti, le basta girare la testa all’indietro e guardare in camera per raccontare una intera trama: nata proprio in Belize, è solo la prima scelta migliore che la regista poteva adottare, regalandole un ruolo notevole. Film magico e bellissimo che in alcuni tratti pare un racconto documentaristico, tanto sono semplici e naturalmente spontanei i vari personaggi, che però recitano come dei veri professionisti. Un film che forse non colpisce subito ma che lascia un sapore lungo e saporito come un buon brandy invecchiato, dalla lunga persistenza. Una storia che pare lontana, nello spazio e nel tempo e che invece si ripete da secoli, sempre la stessa: l’invadenza dell’uomo in una Natura che cerca di difendersi. E sa farlo, a maggior ragione negli antichi racconti del popola Maya.


 
 
 

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