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Senza lasciare traccia (2018)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 5 lug 2020
  • Tempo di lettura: 6 min

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Senza lasciare traccia

(Leave No Trace) USA/Canada 2018 dramma 1h49’

Regia: Debra Granik

Soggetto: Peter Rock (romanzo)

Sceneggiatura: Debra Granik, Anne Rosellini

Fotografia: Michael McDonough

Montaggio: Jane Rizzo

Musiche: Dickon Hinchliffe

Scenografia: Chad Keith

Costumi: Erin Aldridge Orr

Ben Foster: Will

Thomasin McKenzie: Tom

Jeff Kober: Mr. Walters

Dale Dickey: Dale

Dana Millican: Jean Bauer

Alyssa Lynn: Valerie

Ryan Joiner: Tiffany

Trama: Una ragazza adolescente e suo padre hanno vissuto di nascosto per anni in Forest Park, un grande bosco situato alle porte di Portland, in Oregon. Un incontro casuale li poterà allo scoperto, ed entrambi saranno costretti a lasciare il parco per essere affidati agli agenti dei servizi sociali. Proveranno ad adattarsi alla nuova situazione, fino a che una decisione improvvisa li porterà ad affrontare un pericoloso viaggio in mezzo alla natura più selvaggia, alla ricerca dell’indipendenza assoluta.


Voto 7


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Debra Granik ci ha messo ben otto anni per tornare a parlare di un’altra eroina, un’altra adolescente che cerca di dare una risposta alla sua vita scomoda. La regista ha evidentemente ritmi lentissimi di applicazione in nuovi lavori: l’esordio era avvenuto con Down to the Bone sei anni prima del bellissimo Un gelido inverno e adesso al suo terzo lungometraggio ci ripropone come nel precedente un’altra storia difficile da vivere e da raccontare, da capire e da risolvere. In entrambi troviamo un padre dalla storia problematica ed una ragazzina che affronta la vita per capire meglio il suo futuro. Lì la sorprendente Jennifer Lawrence (le predissi con intuito una grande carriera e ho vinto la scommessa) che cerca disperatamente e senza paura dei pericoli annessi almeno le ossa del padre, qui la giovinezza spigolosa Tom di Thomasin Harcourt McKenzie (che ritroveremo in Jojo Rabbit) che vive in tutt’uno col padre Will, che la costringe ad una esistenza ecologica estrema, seppur ben accettata.


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Si devono impiegare molti minuti (tanti) per arrivare a comprendere il motivo di quella scelta, il perché Will e sua figlia Tom vivono in un bosco fitto da sembrare una giungla, dormono in una piccola tenda, sopravvivono bevendo l’acqua dell’umidità della notte, mangiano quello che la natura offre, accendono il fuoco con la pietra focaia, si addestrano giocando ad un “nascondino” che non ha nulla da spartire con quello dei ragazzini di paese, si concedono l’unico lusso giocando a scacchi. Cosa è nascosto nel passato dell’uomo? Cosa li ha indotti a vivere come eremiti lontani dal progresso e dalla vita degli altri uomini? Di cosa hanno paura, dal momento che appena sentono rumori o voci si nascondono o scappano senza lasciare traccia? Ci vorrà una buona parte della visione per cogliere al volo (se ci sfugge quel breve dialogo non ci saranno altre occasioni) le cause di questa scelta di vita. Tom è prigioniera del padre? No. Subisce coercizione accettando quelle condizioni di sopravvivenza? No. È felice? Ebbene, qui è più difficile rispondere, perché da ciò che sembra la risposta è sì: è legatissima al padre e ne accetta gli insegnamenti, anche culturali di base non essendo mai andata a scuola. Poi, in seguito, nel finale, si renderà conto che vivere isolati non è il massimo desiderabile, che i rapporti umani, quando sinceri e ricambiati in maniera reciproca con piccoli gesti, sono essenziali per una vita serena anche se fatta di poco e senza tutte le comodità di quella moderna, quella delle grandi città.


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Vivono come rifugiati nel Forest Park, un grande bosco situato alle porte di Portland, in Oregon, ma la città sembra lontana migliaia di miglia, anzi sono talmente appartati che per loro non esiste neanche. Quando son costretti dalla mancanza di cibo a fare la spesa, effettuano una veloce capatina per sparire alla vista delle persone quanto prima. Solo un piccolo errore di Tom, che si fa scorgere vicino al loro rifugio da un probabile escursionista, porterà allo scoperto la minuscola famiglia e Will verrà identificato come (ecco finalmente il motivo) un ex veterano con disturbi post traumatici da guerra. Quanti film americani hanno voluto affrontare questo gravissimo handicap mentale? Non basterà un piccolo appartamento provvisorio, non basterà la benevola accoglienza di una piccola comunità che vive in un altro bosco (riecco i rednecks del gelido inverno!), non basterà a Will vedere Tom felice e rilassata in mezzo alla gente pacifica che si aiuta nella radura piena di caravan. No, lui è troppo stressato e vuole ancora scappare. Da cosa, da chi, forse non lo sa più neanche lui: è solo il suo istinto a spingerlo. E la povera Tom, che ha appena assaporato il bello della convivenza, del gas per cuocere le pietanze, un letto più morbido di un sacco a pelo sotto una tenda canadese, del sorriso e dell’ospitalità della donna che la sta aiutando, deve affrontare alla sua giovane età una complicata domanda esistenziale: deve andar via col padre per tornare alla vita indipendente, selvaggia e isolata o restare per affrontare con coraggio la sua avventura personale nella vita quotidiana come e con gli altri? Lo sguardo che ne segue tra i due è muto e denso di parole non dette, che riflette i diversi stati d’animo e della psiche. Lui non è più adatto a mescolarsi con gli altri uomini, non è in grado di superare il suo trauma e gli si è arreso, ci convive e di esso si nutre, gli serve per sopravvivere, fino al punto di accorgersi di poter fare a meno dell’amata figlia pur di tornare nell’assoluto isolamento. Di rimando, la giovane Tom lo fissa dritto con i suoi occhi chiari un po’ meravigliata nello scoprire ciò che non avrebbe mai immaginato ma con la determinazione che Will stesso ha contribuito a fortificare gli fa notare che a lei quella vita non attira più, che è una battaglia che non la riguarda. L’epilogo è scritto nel titolo del romanzo da cui il film è tratto: My Abandonment scritto da Peter Rock, ispirato ad una storia vera. Il bisogno di emancipazione di Tom richiede in definitiva che si allontani dal genitore.


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La scena è divisa tra i due protagonisti, da una parte il papà Will, interpretato da un buonissimo Ben Foster, che nella sua vita professionale non ha avuto moltissime occasioni in prima fila e se la cava con una eccellente prestazione. Discorso a parte si deve fare per la giovane promettente Thomasin McKenzie che qui la regista presenta nei titoli di coda come Thomasin Harcourt McKenzie: è vispa e dotata, perfettamente in parte e recita molto bene. Se la Granik le porta fortuna potrebbe ripercorrere la strada fortunata della Jennifer Lawrence su menzionata. Una diciottenne (al momento dell’uscita del film) minuta che dimostra meno dell’età reale e che quindi si adatta molto bene al ruolo della ragazza che affronta il percorso di crescita prima col padre e poi da sola e senza guida ma con il conforto di una comunità nonostante tutto molto accogliente. Ecco quindi che si completa lo sguardo sul film della brava Debra Granik: l’eterno problema delle cicatrici psichiche dei reduci di ogni tipo di guerre e il romanzo di formazione che si sviluppa in seno alla trama, parallelo all’altro. Percorso importante per un adolescente che evidentemente ispira e che la regista statunitense ama, perché si ripete (sono inevitabili i paragoni tra i due suoi film famosi) come successo con Winter’s Bone. Donna lucida, che sa maneggiare queste trame, che sa dirigere giovani attrici ricavando da loro il massimo, mettendole al centro della storia e della scena esaltandone le doti. È una eccellente narratrice dell’America lontana dallo slogan del M.A.G.A. di Trump, lontana dai grattacieli, racchiusa e rinchiusa nei boschi dove vige la legge fatta sul posto, dove ognuno pensa solo ai fatti propri e non gradisce ingerenze da parte degli estranei, fieri dell’essere rednecks.


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La regista: “Nel film non c'è un cattivo. Tom e il padre Will sono alla ricerca di un posto in cui vivere, diversi estranei provano ad aiutarli ma sono loro che scelgono come vivere. I loro antagonisti non sono figure visibili ma qualcosa difficile da vedere: le pressioni che la società impone per essere tutti conformi a delle regole condivise. Nella loro storia, la posta in gioco è la sopravvivenza. Dove vanno coloro che non si adattano alle norme della nostra cultura? Cosa fanno? Come si reagiscono? Dopo essere stati sfrattati dal parco, devono imparare a relazionarsi con il mondo. Tom è curiosa del mondo ma Will percepisce che tale curiosità può allontanarla da lui. Si tratta di qualcosa di universale con cui tutti dobbiamo fare i conti: crescendo, dobbiamo distaccarci dalla persona a cui siamo più vicini. Grazie al personaggio del padre, torno ad affrontare un argomento che in passato ho già trattato: quello dei veterani che, di ritorno dalle guerre in Afghanistan e Iraq, devono dimenticare ciò a cui hanno assistito e ricominciare a vivere.”



 
 
 

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