top of page

Titolo grande

Avenir Light una delle font preferite dai designer. Facile da leggere, viene utilizzata per titoli e paragrafi.

Shiva Baby (2020)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 25 lug 2021
  • Tempo di lettura: 7 min

ree

Shiva Baby

USA/Canada 2020 commedia 1h17’


Regia: Emma Seligman

Sceneggiatura: Emma Seligman

Fotografia: Maria Rusche

Montaggio: Hanna Park

Musiche: Ariel Marx

Scenografia: Cheyenne Ford

Costumi: Michelle J. Li


Rachel Sennott: Danielle

Molly Gordon: Maya

Danny Deferrari: Max

Polly Draper: Debbie

Fred Melamed: Joel

Dianna Agron: Kim Beckett

Jackie Hoffman: Susan


TRAMA: Danielle, una giovane ebrea vicina alla laurea, grazie ai soldi datele dal suo paparino Max che la mantiene, si precipita a un incontro con i nevrotici genitori per lo shiva, i sette giorni rituali di lutto che seguono il funerale di un parente prossimo. All'arrivo, viene accolta dai vari parenti che hanno da ridire su tutto mentre la sua ex fidanzata Maya viene lodata per essere entrata in una scuola di legge. La giornata, già storta di suo, prende una piega inaspettata quando alla festa si presenta anche Max con la moglie Kim e prole al seguito.


Voto 8

ree

Questo stupefacente esordio alla regia è l'espansione del cortometraggio omonimo del 2018 che la scrittrice-regista Emma Seligman aveva realizzato come progetto di tesi mentre studiava cinema alla Tisch School of the Arts della New York University. Il particolare titolo forse si riferisce alla giovane età della protagonista Danielle o alla presenza inconsueta di una bambina di 18 mesi alla cerimonia funebre chiamata appunto, nel rito ebraico, shiva, al centro della trama. La Seligman dice che avvertiva chiaramente la possibilità dello spazio creativo per espandere il corto fin dal momento della creazione dello stesso ma aveva anche bisogno di una maggiore motivazione da parte della straordinaria attrice protagonista Rachel Sennott per poter iniziare a lavorare su un lungometraggio. Ovviamente, se il lato artistico era già progettato e chiaro nella mente delle due donne, i problemi più seri erano piuttosto quelli relativi ai finanziamenti: non è stato facile trovare i capitali necessari anche perché chi era disposto voleva in cambio più controllo nella fase creativa. Un ostacolo non proprio trascurabile dal momento che essendo un soggetto molto particolare e con dialoghi fitti non sarebbe stato semplice far andare avanti il progetto senza discussioni. E bene hanno fatto la regista e l’attrice a resistere perché il risultato finale è stato veramente eccellente: un film divertente, intelligente, perfino provocatorio, pur se sempre nei pieni binari della mentalità e cultura ebraica. Più volte, durante la visione, ho avuto l’impressione di accostamenti alla inimitabile scrittura di Woody Allen, con cui, ovviamente, la regista condivide la mentalità e la probabile scarsa religiosità. Le cerimonie tradizionali, l’invadenza dei parenti (quante volte nei film di Allen?), la molteplicità di amanti, le bugie inventate sul momento per uscire da pericolose impasse… Sono diversi i punti in comune, anche se tra l’autore newyorkese e l’artista canadese ci sono moltissime differenze, a cominciare proprio dalla sessualità, essendo la donna una bisessuale dichiarata, particolarità che si rivela determinante nel prosieguo del racconto.

ree

È un atto unico, stringente, veloce, loquace: un pomeriggio in una casa per celebrare la memoria di un parente deceduto (“Ma si può sapere chi è morto?”). Una casa piena di amici e parenti, tutti vestiti rigorosamente di nero e con tanti tavolini imbanditi di molteplici pietanze della tradizione. Lì, dove si reca Danielle con i genitori, la ragazza trova inaspettatamente proprio l’uomo che aveva appena lasciato dopo un incontro di naturale sessuale. Lui, Max, è quello che negli ambienti universitari viene chiamato sugar daddy, cioè uomini, spesso di mezza età e con una buona disponibilità economica, che offrono soldi e regali a ragazze più giovani in cambio della loro compagnia, del loro tempo e del loro corpo. A loro volta, le ragazze hanno così modo di trovare i soldi per la sopravvivenza metropolitana e mantenersi agli studi, con la scusa, come appunto fa Danielle, di lavorare saltuariamente come baby-sitter. Ne nasce una scomoda situazione (i due non pensavano di avere conoscenze in comune) anche perché l’uomo si presenta con la bella moglie imprenditrice e con la loro piccola Rose. La opprimente situazione, l’insopportabile e soffocante presenza della madre, lo stuolo infinite di zie che pongono tutte le stesse domande (Hai un fidanzato? Sei anoressica, non vedi come sei magra? Cosa studi? Quando ti laurei?) – a cui lei, bisessuale, risponde sempre più annoiata che frequenta un corso di gender studies, cioè quell'area di ricerca interdisciplinare che si interroga sui significati socio-culturali della sessualità e dell'identità di genere -, il ritrovarsi con Maya, la fidanzata ai tempi del liceo che è arrabbiata perché lei non si è fatta più viva, i genitori che le vogliono trovare per forza un lavoro (vivendo lei sempre a loro spese), gli sguardi equivoci scambiati pericolosamente con Max. Un insieme di situazioni che paiono gli elementi di un film horror in cui le pareti della casa, da cui Danielle non riesce mai a fuggire, si fanno sempre più strette. La sensazione che qualcosa di irreparabile possa accadere da un momento all’altro domina l’atmosfera e i primissimi piani che la regista dedica a buona parte dei presenti ma soprattutto alla ragazza creano una tensione traballante che assilla dal primo all’ultimo minuto di presenza in quella casa, troppo affollata di gente che guarda chiede osserva aspetta si avvicina viene scansata vuole mangiare e bere di continuo, mentre la moglie di Max comincia a sospettare qualcosa.

ree

È una situazione da cui sembra non difficile ma impossibile uscire, la fine della cerimonia pare non arrivare mai e la madre troppo impicciona non la lascia in pace. Danielle è sull’orlo della crisi di nervi. Ha perso la sicurezza di avere per convenienza un uomo per lei e forse solo la sua vecchia fiamma Maya le appare come il minimo di appoggio morale e i lunghi baci scambiati fuori dalla casa le danno un certo sollievo psicologico, almeno per poter rientrare per recuperare lo smartphone che nel frattempo ha perso, in cui ci sono foto compromettenti. Ci si chiede: è un horror? Ma non c’è tempo per riflettere dal momento che il ritmo è frenetico (come i dialoghi), quasi a tempo di jazz sincopato, accentuati dagli eccellenti arrangiamenti del commento musicale: archi pizzicati, suoni striduli, batteria che porta il tempo stretto (viene in mente il favoloso accompagnamento di Antonio Sánchez nell’altrettanto favoloso Birdman di Alejandro G. Iñárritu [recensione]). La compositrice Ariel Marx ha svolto un lavoro superlativo, riuscendo a dare una partitura degna - ecco appunto - di un horror, dando maggior risalto alla sensazione claustrofobica dell’ambientazione. Una scrittura musicale che diventa quasi coprotagonista della storia. Davvero brava!

ree

Il film diverte, pungola la nostra continua attenzione, è spietato verso le solide tradizioni di quel popolo, esalta l’acidità dell’umorismo ebraico, in diversi attimi persino nero come la pece e la cattiveria, esibisce i cibi del rituale funebre ricchi di sapori forti, mostra la anomala situazione in cui pare che l’epicentro di tutta la casa sia la ragazza, che più cerca di mimetizzarsi per non essere avvicinata e disturbata, più viene bloccata da chi incrocia in quelle stanze affollatissime. Stranamente, sono solo donne le persone che la approcciano, mai un maschio. Tranne quel Max sempre più a disagio per la presenza di quella che lui riteneva una ragazza estranea al suo ambiente e un semplice passatempo sessuale. Si guardano tanto, lei per provocarlo e spaventarlo, lui terrorizzato che la moglie possa scoprire la loro frequentazione.

Per dare credibilità e vivacità e riuscire a far rendere al massimo la sceneggiatura tanto incisiva necessitava un’attrice senza esitazioni, dalla resa massima e coinvolgente e questa persona è perfettamente incarnata dalla fantastica Rachel Sennott – attrice e comica statunitense, una vera stand up comedian di successo - la quale era già la protagonista nel cortometraggio e che nel frattempo ha parlato tanto con la regista e ne ha saputo migliorare e limare molti particolari, dando un notevole contributo non solo nella interpretazione ma anche nel completamento del soggetto iniziale. Infatti, quando hanno deciso di trasformarlo in un lungometraggio sono state in costante contatto, la regista le mandava continuamente le bozze del copione e l’altra rispondeva con i suoi appunti. Emma Seligman confessa che è successa una cosa bizzarra: quando ha scritto il corto si sentivo molto vicina al personaggio di Danielle e alle sue ansie e sebbene il film non si basi su una sua personale e specifica esperienza autobiografica, non essendo mai stata una sex worker al college, per esempio, ma racconta che avere uno sugar daddy era comunissimo alla NYU e sentiva molto sue le paure di Danielle, per esempio le incertezze sul futuro e il senso di smarrimento. Se la regista è stata bravissima nella scrittura e nella direzione, chi stupisce per la espressività, fatta di smorfie e cambi continui di espressioni, è questa straordinaria Rachel Sennott, che lascia un segno fortissimo sul film. Da standing ovation!

ree

Il film però non è solo questo, è anche una obiettiva riflessione sulla donna dell’oggi, sulle attese che arrivano dalla famiglia e dall’ambiente, sull’intraprendenza e indipendenza che la donna deve avere e che si deve guadagnare più duramente degli uomini. Queste riflessioni sono rappresentate dal personaggio della moglie di Max, l’imprenditrice Kim, che guida ben tre imprese, fatto che stimola una divertente reazione di Danielle. E poi ancora, e forse argomento perfino dominante, importante è l’elemento del sesso, esposto qui non come atto semplicemente erotico ma come una questione di potere, che però nel corso di quel pomeriggio crolla come principio, perlomeno in quel contesto, nonostante Danielle ci provi costantemente con i suoi sguardi, con i provocanti gesti nel bagno o con la foto che invia tramite cellulare all’uomo che vorrebbe ai suoi piedi. Il suo rifiuto è un fallimento e la restituzione del telefono smarrito da parte della bella signora Kim chiude definitivamente la questione.

ree

La sequenza finale, quando Joel (il solito simpaticissimo Fred Melamed) cerca di caricare nella sua monovolume quanti più parenti possibili, è la degna conclusione spassosa di un film riuscito in pieno, appropriata chiusura di una commedia (a volte nera) che fa riflettere e che è sincera e spontanea come una autobiografia, almeno per ciò che riguarda le intenzioni e le convinzioni della perfetta coppia Seligman-Sennott. Gli ottimi giudizi che il film sta ricevendo sono tutti meritati.


 
 
 

Commenti


Il Cinema secondo me,

michemar

cinefilo da bambino

bottom of page