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Swallow (2019)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 4 lug 2021
  • Tempo di lettura: 6 min

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Swallow

USA/Francia 2019 dramma 1h34’


Regia: Carlo Mirabella-Davis

Sceneggiatura: Carlo Mirabella-Davis

Fotografia: Katelin Arizmendi

Montaggio: Joe Murphy

Musiche: Nathan Halpern

Scenografia: Erin Magill

Costumi: Liene Dobraja


Haley Bennett: Hunter Conrad

Austin Stowell: Richie Conrad

Elizabeth Marvel: Katherine Conrad

David Rasche: Michael Conrad

Denis O'Hare: William Erwin

Luna Vélez: Lucy

Zabryna Guevara: Alice

Laith Nakli: Luay

Babak Tafti: Aaron

Nicole Kang: Bev


TRAMA: Hunter è sposata con Richie, facoltoso manager che lavora nell'azienda del padre, e vive con lui in una villa lontana dalla metropoli. Apparentemente ha tutto, ma nessuno la considera come una persona, con dei bisogni e dei desideri propri. Intanto il picacismo da cui è affetta la induce a inghiottire oggetti sempre più pericolosi per il suo organismo.


Voto 7

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Ogni giorno cerca di fare qualcosa di inaspettato.

Spingi te stessa a provare cose nuove.

Due frasi messe in evidenza e in grassetto nel libro riguardante la gravidanza e la futura vita da madre che Hunter- una giovane casalinga, moglie di Richie, un rampollo esclusivamente interessato alla propria carriera e alla propria immagine - riceve dalla invadente suocera, la quale, come il marito, stravede per il figlio e tratta la nuora come un’appendice della vita della famiglia, donna che deve adeguarsi alle esigenze del carissimo figlio. Lei ha notato che Hunter, da qualche tempo, è come assente, sorride sempre, forse troppo, servizievole sì, ma non ancora all’altezza delle aspettative. La giovane è come reclusa in una favolosa villa isolata nella campagna con vista sul fiume Hudson, un’ora e mezza di auto da New York dove il giovanotto lavora: pareti di cristallo, arredamento moderno, piscina. C’è tutto, anche la solitudine, che Hunter cerca di compensare vestendosi e truccandosi come se dovesse uscire da un momento all’altro o ricevere ospiti di riguardo. Il massimo della distrazione consiste nel cucinare nell’attesa della cena, giocare ai games dello smartphone, girare per le stanze immaginando di abbellire i prati con vasi di belle di giorno, applicando pellicole adesive colorate sulle grandi vetrate della casa. È disposta a tutto, pur di dare felicità al marito e ai pressanti suoceri, sperando solo nel compenso di un sorriso di ringraziamento e di una frase d’amore ripagante.

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Cerca di fare qualcosa di inaspettato le torna in mente ogniqualvolta si accorge (e capita spesso) che, invitata a raccontare episodi della sua vita, non l’ascoltano neanche e cambiano argomento. Sicuramente, facendo qualcosa di inatteso richiamerà su di sé l’attenzione che tanto le manca, come succede ai bambini trascurati. Quando un giorno il suo sguardo cade su una biglia di vetro rosso, così attrattiva e invitante, la osserva attentamente e le viene spontaneo metterla in bocca e ingoiarla, come un lussureggiante frutto esotico. L’esperimento le si rivela interessante, specialmente dopo averla defecata, raccolta, pulita e messa da parte come un trofeo. Poi sarà la volta di altri piccoli oggetti, un anello, una spilla, persino cose appuntite: si sviluppa così quella ossessione patologica chiamata picacismo, per cui si ingeriscono oggetti non solo non commestibili ma anche pericolosi per la salute e gli organi interni. Una malattia che diventa mania irresistibile. Inevitabile che venga scoperta in seguito al malore causato. Salvata e convinta a parlarne con una psichiatra, la donna comincia ad aprirsi lentamente, pur con qualche remora, e risulta lampante che nasconda qualche terribile segreto che le ha condizionato la vita sin dall’infanzia. Sebbene sorvegliata tutto il giorno da un infermiere di origine siriana, scappato da Damasco a causa della guerra, la situazione precipita, fino alla decisione di marito e suoceri di farla ricoverare. È a questo punto che si sviluppa la seconda parte del film, con l’apertura del passato e dei chiarimenti che cerca. In Siria c’è la guerra ma anche nella prigione dorata in cui vive Hunter è come vivere sotto i bombardamenti: l’unica via d’uscita è rappresentata dalla fuga, come l’infermiere.

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L’abitazione, che ricorda parecchio la villa dalle enormi vetrate colorate di Revenge (recensione) o quella tecnologica e imprigionante de L’uomo invisibile (recensione), è un luogo tanto grande quanto limitativo, è un affaccio verso la natura circostante ma lontano dalla gente. Sicuramente dal passato difficile che Hunter è riuscita ad abbandonare, per il cui rimedio spera di trovare comprensione e vero affetto da quella mamma che ricorda sempre ma che avverte lontana, irraggiungibile. Ci proverà, oh se ci proverà a contattarla ma con un risultato così deludente da rinunciare, a conferma di quanto questa povera ragazza sia stata perennemente sola e abbandonata al suo destino. La soddisfazione che le resta è riuscire a trovare l’uomo che tanti anni prima ha condizionato così fortemente la sua psiche. L’evasione da quella vita monotona e condizionata da un marito assente ed egoista, che invece di ascoltarla e guardarla negli occhi per capire le sue angosce, smanetta continuamente sul cellulare per seguire gli affari, subordinata da due suoceri indiscreti e sempre inopportuni che decidono tutto per il figlio e la nuora, dove l’unico atto di ribellione è ingurgitare qualsiasi cosa sia ingoiabile (anche il terreno delle piante appare appetitoso, anche un piccolo cacciavite!), quella evasione è forse il primo atto di vera affermazione di se stessa, un urlo di indipendenza, una ribellione e una rinascita, soprattutto perché la sua venuta al mondo non è stata come quella delle altre ragazze più fortunate. La fuga rappresenta una prova di resistenza verso gli altri, la liberazione dalla sequenza di atti di autopunizione, di autoespulsione dalla vita degli altri: il film non è un horror se non corporale, al massimo un horror interno, speculare al mondo domestico che la affligge e al concepimento della sua nascita, momento che la tormenta in maniera ossessiva, come il picacismo. Andando oltre, si potrebbe dire che il film tratta di una compulsione pericolosa, sì, ma una compulsione che diventa un catalizzatore per reclamare il suo senso di sé, la sua autonomia sul suo corpo - che la famiglia sta cercando di usare come una sorta di contenitore per la loro eredità - per elaborare un trauma indicibile e ribellarsi alla società patriarcale. In un certo senso, il crollo diventa una svolta.

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L’esordio alla regia di Carlo Mirabella-Davis è molto interessante, è un tuffo nel sorprendente continuo, è un lavoro spiazzante e attraente che riesce a scuotere lo spettatore lasciandolo nello stesso tempo inebetito e immobile, in attesa della sequenza successiva. Non fa calare l’attenzione neanche per un minuto, perfino in quella dei titoli di coda dove, mentre scorrono, il bagno del centro commerciale dove Hunter compie l’atto finale, è un infinito andirivieni di donne di diverse età, razze, stazze, stili, modi di lavarsi le mani, tutto il mondo femminile intimo che fa gesti e si muove senza la minima presenza di uomini. In certi momenti del film si avverte lo spirito di Yorgos Lanthimos, per la provocazione cercata, per l’originalità del tema, anche se però, va detto, manca quel grottesco silenzioso che caratterizza l’autore greco. Parte da lontano l’idea del film e lo stesso autore lo spiega in totale sincerità: “Il film è stato ispirato da mia nonna che faceva la casalinga negli anni Quaranta e Cinquanta. In un matrimonio infelice, ha sviluppato vari rituali di controllo. Lavava ossessivamente le mani con 12 bottiglie di alcol denaturato a settimana e 4 saponette al giorno. Penso che stesse cercando ordine in una vita in cui si sentiva sempre più impotente. Per volere dei medici, mio ​​nonno l'ha portata in un istituto psichiatrico dove le è stata somministrata una terapia con elettroshock, una terapia con l'insulina e una lobotomia non consensuale. Ha perso il senso del gusto e dell'olfatto. Ho sempre sentito che c'era qualcosa di punitivo nel modo in cui veniva trattata, veniva punita per non essere all'altezza delle aspettative della società su ciò che secondo loro dovrebbe essere una moglie o una madre. Ho sempre voluto fare un film su questo. Ma sai, lavarsi le mani non è molto cinematografico. O forse sta diventando più cinematografico dal momento che lo facciamo tutti in modo ossessivo (nota: vedi pandemia). Ricordo di aver visto una fotografia di tutto il contenuto che era stato rimosso dallo stomaco di un paziente con il picacismo. Ero affascinato e volevo sapere cosa attirava il paziente verso quei manufatti. Sembrava quasi un'esperienza mistica. Volevo saperne di più, ed è così che è iniziato.” È indubbiamente un buon esordio, il suo, ed è interessante come ha avuto uno sguardo diverso sugli argomenti esposti.

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Non si può fare a meno di esaltare la recitazione della bella protagonista: Haley Bennett, brava attrice sempre in secondo piano in altri film ma stavolta assoluta primattrice. Il suo bel viso particolare, la pettinatura sempre in ordine (troppo corta per l’insopportabile suocera), il rossore naturale delle gote, gli occhi chiari che non nascondono nulla, il suo è un personaggio disarmante e sorprendente. È bravissima, centra la performance e la rende (in)credibile con tutte le sue debolezze e le (in)certezze. È facile essere dalla sua parte anche se vederla all’opera sentiamo nello stomaco e lungo l’esofago anche noi gli spigoli degli oggetti ingurgitati e ciò è chiaramente merito dell’attrice e di chi l’ha diretta. I primissimi piani che Carlo Mirabella-Davis le dedica sono molto efficaci e raccontano da soli quello che le passa per la mente. Noto che non tutta la critica ufficiale si sia schierata in giudizi proprio positivi ma sono felice che invece Pedro Almodóvar, che ha sempre saputo parlare di donne, anche particolari, sia del parere opposto, avendolo giudicato tra i migliori film che ha visto ultimamente: “Il film è un mix di Yorgos Lanthimos, Jessica Hausner e Todd Solondz. La protagonista, la meravigliosa Haley Bennett, sente compulsivamente il bisogno di mettersi in bocca e ingoiare piccoli oggetti che poi defeca, pulisce e conserva come trofei. Le cose si complicano quando inizi a ingoiare oggetti appuntiti come una puntina da disegno, ecc. Ho guardato il film con un continuo senso di meraviglia. Il tema difficile da sviluppare non diminuisce in qualsiasi momento.

Più elogio di così!


 
 
 

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