The Covenant (2023)
- michemar

- 1 dic
- Tempo di lettura: 3 min

The Covenant
UK, Spagna, USA 2023 thriller/guerra 2h3’
Regia: Guy Ritchie
Sceneggiatura: Guy Ritchie, Ivan Atkinson, Marn Davies
Fotografia: Ed Wild
Montaggio: James Herbert
Musiche: Christopher Benstead
Scenografia: Martyn John
Costumi: Loulou Bontemps
Jake Gyllenhaal: sergente John Kinley
Dar Salim: Ahmed
Fariba Sheikhan: Basirà, moglie di Ahmed
Sean Sagar: Charlie “Jizzy” Crow
Alexander Ludwig: sergente Declan O’Brady
Antony Starr: Eddie Parker
Jason Wong: Joshua “JJ” Jung
Rhys Yates: Tom “Tom Cat” Hancock
Christian Ochoa Lavernia: Eduardo “Chow Chow” Lopez
Jonny Lee Miller: colonnello Vokes
Bobby Schofield: Steve Kersher
Emily Beecham: Caroline Kinley
James Nelson-Joyce: Jack “Jack Jack” Jackson
TRAMA: Il sergente John è al suo ultimo turno di servizio in Afghanistan ed è accompagnato dall’interprete locale Ahmed, che rischia la propria vita per portare in salvo il soldato, gravemente ferito, attraverso i chilometri e chilometri di un sentiero remoto ed estenuante.
VOTO 6,5

Guy Ritchie con il “Covenant”, che sta per patto di lealtà e riconoscenza tra il sergente americano protagonista e il suo interprete afghano, il vero senso del film, sembra voler uscire dal suo solito terreno di gioco, quello dei thriller fatti di battute taglienti e ironia spavalda, per tentare un cinema più maturo e riflessivo. Ciò che colpisce è la volontà di affrontare un tema duro e complesso, lontano dalle atmosfere dei soliti gialli d’azione.


La storia ci porta nell’Afghanistan del 2018, un conflitto ormai logorato da anni di occupazione e da promesse non mantenute agli alleati locali. Il sergente John Kinley, interpretato da Jake Gyllenhaal, guida una piccola unità incaricata di neutralizzare ordigni esplosivi. Al suo fianco c’è Ahmed, traduttore con esperienza militare e un intuito che gli permette di salvare la squadra da un’imboscata. Quando una delle missioni si trasforma in massacro, solo i due sopravvivono. Gravemente ferito, l’americano viene trascinato dal traduttore attraverso territori ostili per ricevere cure, mentre Ahmed finisce nel mirino dei talebani e deve nascondersi con la sua famiglia. Tornato in California, Kinley non riesce a ignorare il debito morale verso chi gli ha salvato la vita. Lotta contro la burocrazia per ottenere i visti e, non riuscendoci, decide di tornare clandestinamente in Afghanistan per aiutare Ahmed e i suoi cari a fuggire.

Il film, almeno fino al finale più convenzionale, evita di cadere nei cliché del war movie patriottico. Non c’è enfasi retorica né facile cameratismo: la relazione tra i due protagonisti è fondata sulla sopravvivenza e sull’onore, non sull’amicizia da manuale.

Il risultato è un racconto che mescola eroismo e malinconia. Non celebra la guerra, ma ne mostra il peso umano, le domande scomode e le contraddizioni di un conflitto senza vittoria. Ritchie non punta il dito contro governi specifici, ma allarga lo sguardo sulla responsabilità collettiva e sul prezzo pagato da chi ha creduto alle promesse occidentali.

Nonostante la buona qualità, è difficile immaginare questo film, anomalo per il regista, come successo al botteghino: troppo poco spettacolo adrenalinico, troppa riflessione su una ferita ancora aperta. Eppure, proprio per questo, è uno dei lavori più solidi di Ritchie dai tempi dei suoi esordi. Un film che merita di essere visto perché dimostra che anche un regista noto per il ritmo e la leggerezza può scegliere di affrontare la complessità con serietà e misura.

Guy Ritchie ha così tanta esperienza ormai nel cinema di movimento che è diventato affidabile e un suo film si guarda sempre con piacere e lo dimostra anche in questa occasione fuori dal suo registro conosciuto e per il quale si è guadagnato una posizione solida. Come al solito, anche qui c’è un nome importante nel cast, Jake Gyllenhaal, attore poliedrico e versatile capace anche di mettersi la tuta militare e non sfigurare, aggiungendo, dall’alto del suo talento, molta umanità ad un soldato che non si dà pace fin quando non potrà salvare un uomo diventato importante per la sua vita. Bravo anche Dar Salim, spesso caratterista anonimo in vari film, un iracheno cresciuto in Danimarca.

Film solido, che non guarda solo all’aspetto militaresco ma tanto a quello umano e dei rapporti che possono nascere lì dove meno si può immaginare. La dimostrazione arriva da un semplice scambio di batture:
John Kinley: “Sei fuori dai tuoi limiti, Ahmed. Sei qui per tradurre.” Ahmed: “In realtà, sono qui per interpretare.”

Per inciso, dopo il drammatico e ben noto sparo accidentale di un’arma da fuoco che aveva causato la tragica morte di una componente del cast tecnico sul set di Rust (in cui rimase coinvolto penalmente Alec Baldwin), Guy Ritchie ha imposto rigorosamente che non ci fossero armi da fuoco vere sul set di questo film. Tutte le armi da fuoco mostrate nel film sono pistole ad aria compressa o di plastica.






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