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The Deep (2012)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 24 ott 2021
  • Tempo di lettura: 5 min

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The Deep

(Djúpið) Islanda 2012 dramma 1h35’


Regia: Baltasar Kormákur

Sceneggiatura: Jón Atli Jónasson, Baltasar Kormákur

Fotografia: Bergsteinn Björgúlfsson, Einar Magnus Magnusson

Montaggio: Sverrir Kristjánsson, Elísabet Ronaldsdóttir

Musiche: Daníel Bjarnason, Ben Frost

Scenografia: Atli Geir Grétarsson

Costumi: Helga I. Stefánsdóttir


Ólafur Darri Ólafsson: Gulli

Jóhann G. Jóhannsson: Palli

Stefán Hallur Stefánsson: Jon

Walter Geir Grimsson: Raggi

Þröstur Leó Gunnarsson: Larus

Björn Thors: Hannes

Þorbjörg Helga Þorgilsdóttir: Halla

Theodór Júlíusson: padre di Gulli

María Sigurðardóttir: madre di Gulli


TRAMA: In una fredda notte del marzo 1984, a poche miglia dalla costa meridionale dell'Islanda, un peschereccio affonda con tutti gli uomini del suo equipaggio ancora a bordo. Gulli, uno degli uomini, riesce miracolosamente a salvarsi, e tenta di raggiungere la riva. Dopo cinque ore passate in balia delle correnti a nuotare, arriva sulla terraferma e si ritrova in una deserta e disabitata distesa di roccia lavica. Per cercare aiuto, sarà costretto a camminare per oltre due ore attraverso il paesaggio vulcanico.


Voto 6,5

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A Baltasar Kormákur piacciono i film estremi, in cui l’uomo viene messo a dura prova. Infatti, oltre che di action movies, si è spesso occupato di vicende (buona parte realmente accadute) che sfidano l’impossibilità della sopravvivenza (p.e. Everest, Resta con me). Anche stavolta prende a soggetto una storia successa veramente, un caso clamoroso che sa addirittura di miracoloso – perché proprio di questo si parlava in un primo momento - che in Islanda è rimasto una leggenda: lo strabiliante evento accaduto l'11 marzo 1984, quando un peschereccio naufragò nelle gelide acque delle isole Vestmann. Dell'equipaggio si salvò solo un uomo, che riuscì a sopravvivere in condizioni impossibili con temperature disumane: Gulli, un giovane omone, un tipo comune che divenne senza volerlo un eroe nazionale ed allo stesso tempo un fenomeno scientifico. Una storia che aprì una breccia sui limiti del corpo umano, tanto che il protagonista fu, dopo essere curato e ristabilito in piena salute, sottoposto a verifiche mediche ed esperimenti con raffronti con alcuni marines adatti. E anche allora stupì ancora tutti i medici che lo assisterono.

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Girato in una serie di grigi scuri e blu, adeguati all’ambientazione, la fotografia di Bergsteinn Björgúlfsson e Einar Magnus Magnusson evoca un mondo in cui gli esseri umani sono letteralmente in balia degli elementi: infatti, nel mondo moderno, nonostante i sofisticati dispositivi per comunicare e per navigare, è difficile opporre resistenza alla potenza del mare. A guardar bene è anche una storia di cameratismo incentrata sul maschile, di sincera amicizia, quasi di fratellanza commovente, in una professione in cui le persone hanno pochi amici a causa della precarietà del loro lavoro: quello del pescatore è un lavoro davvero duro, spesso affidato alle condizioni metereologiche, con levatacce e rientri non sempre felici. Tutto dipende dalla quantità del pescato. Tornare a mani vuote o quasi è desolante. Non sanno mai, tra l’altro, se torneranno e se lo fanno, non c'è garanzia del futuro. Un lavoraccio.

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La parte iniziale del film è incentrata sui preparativi dei marinai del peschereccio e delle notti brave passate in compagnia e amicizia: uomini di gente abituata al freddo del ghiaccio islandese a cui rimedia con bevute colossali e sesso con le ragazze del bar. La nottata prima di salpare è come un battesimo che si ripete ogni volta e Gulli e i suoi colleghi pensano solo ad ubriacarsi e divertirsi, poi saluteranno la mamma o la famiglia e si imbarcheranno. Dopo una prima parte di viaggio, fatta delle solite mansioni e qualche rallentamento dovuto alla rete che resta impigliata sul fondo e i consueti contatti con la capitaneria, succede l’imprevisto: un incidente nell’utilizzo dell’argano sbilancia fortemente l’imbarcazione fino a farla inclinare, imbarcare acqua e capovolgere. Sono in sei, compreso l’inesperto giovane cuoco che si era imbarcato per la prima volta, ma qualcuno muore già subito battendo la testa, gli altri cercano di salvarsi aggrappandosi alla chiglia capovolta, ma l’acqua è gelida e ben presto giungono i primi sintomi di assideramento. Impossibile resistere a quelle temperature sia del mare che dell’aria. Uno alla volta cedono, l’ultimo è Palli l’amico intimo di Gulli, che lo incita fino alla fine, sino a quando gli muore tra le braccia. Adesso, Gulli è solo, nel nero mare aperto, nel lunghissimo buio islandese, lontano dalla terraferma. Non resta che resistere e nuotare, resistere e nuotare, resistere e nuotare… Intorno solo il nulla fatto di acqua e aria, entrambe gelide e scure. Finché non compaiono, incredibilmente, dopo aver pregato, aver parlato con i gabbiani che Gulli ha sempre odiato, ingoiato acqua salata, dopo essersi affidato all’Angelo Custode, le luci lontane dell’isola che rappresenta la salvezza e la vita.

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Qui inizia la terza parte del film ma anche una nuova vita di Gulli il grasso: l’incredulità dei soccorritori porta persino a pensare che egli sia un impostore, a far partire le ricerche del relitto senza molta convinzione, salvo poi ricredersi su tutto, mettendolo ugualmente però alla prova con esperimenti scientifici per constatare la sua incredibile resistenza al freddo. I suoi pregi genici lo hanno salvato: chi avrebbe mai detto che il grasso corporeo può salvare la vita ad un uomo nell’acqua con temperature sotto lo zero? Ma non è solo gioia e fama, perché il miracolato sopravvissuto porta dentro di sé il rammarico di non aver potuto salvare nessuno, neanche il suo miglior amico d’infanzia Palli, di sentirsi l’unico superstite mentre i suoi compagni giacciono in fondo all’Oceano Atlantico, solo a qualche miglia marine dalla costa. Salvarsi e sentirsi in colpa. Trovare con fatica il coraggio di far visita alla vedova e ai due bei bambini del suo amico. E mentre la popolazione del villaggio gli fa coraggio, la stampa lo considera un eroe nazionale e tutti i media parlano di Gulli il fenomeno, l’eroe, che, ovviamente, tornerà in mare per continuare a svolgere il suo lavoro di pescatore. Perché, come dice l’anziano, la morte felice per un pescatore è morire in mare.

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Da non perdere, come spesso succede nei biopic, i titoli di coda durante i quali si possono vedere le vere interviste che – come nel film – l’uomo rilascia alla TV: è proprio lui, il vero Gulli che parla e racconta candidamente, come è lui nella vita, come erano andati i tragici avvenimenti. Non ci sono grandi effetti speciali, Baltasar Kormákur non punta sulla spettacolarità della vicenda, ma oltre a raccontare i fatti e immaginare come sia effettivamente andato l’affondamento del peschereccio, ci mostra invece il forte legame tra i sei giovanotti, stimola la nostra attenzione sull’aspetto umano di un giovanottone che da bambino era preso in giro per la sua pinguedine ma adesso ha trovato la notorietà, ci racconta la dura esistenza degli uomini di mare. È la storia di un brav’uomo, di un ragazzo generoso, sempre sorridente e disponibile, che vive ancora con l’anziana mamma, che va a consolare i due bimbi di Palli, rassicurandoli che il loro papà è in cielo per proteggerli. La serenità che può dare agli altri gli ritorna e lo tranquillizza: non può essere mai una colpa essere un sopravvissuto. Il rotondetto Ólafur Darri Ólafsson rende alla perfezione il personaggio, rassomigliando perfino al Gulli vero, molto realistico ed efficace nella sua impegnata interpretazione.

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Il film è avventuroso come ci si può attendere da questo regista, ma va oltre il genere: sorprende con una storia che da queste parti d’Europa non conosce forse nessuno.


 
 
 

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