The Song of Names - La musica della memoria (2019)
- michemar

- 28 gen 2022
- Tempo di lettura: 4 min

The Song of Names - La musica della memoria
(The Song of Names) Canada/Ungheria/UK/Germania 2019 dramma 1h53’
Regia: François Girard
Soggetto: Norman Lebrecht (romanzo)
Sceneggiatura: Jeffrey Caine
Fotografia: David Franco
Montaggio: Michel Arcand
Musiche: Howard Shore
Scenografia: François Séguin
Costumi: Anne Dixon
Tim Roth: Martin Simmonds
Clive Owen: Dovidl Rapoport
Stanley Townsend: Gilbert Simmonds
Gerran Howell: Martin (17-23 anni)
Misha Handley: Martin (9-13 anni)
Jonah Hauer-King: Dovidl (17-23 anni)
Luke Doyle: Dovidl (9-13 anni)
Catherine McCormack: Helen Simmonds
Marina Hambro: Helen giovane
Magdalena Cielecka: Anna Wozniak
Saul Rubinek: Mr. Feinman
TRAMA: Mentre l'Europa è alle prese con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il piccolo Martin inizia ad amare il nuovo fratello Dovidl, un talentuoso violinista che ha nove anni come lei ed è un rifugiato ebreo polacco a Londra. A 21 anni, prima del debutto in concerto, Dovidl scompare senza lasciare traccia, portando vergogna e rovina nella sua famiglia. Molto tempo dopo, un giovane violinista mostra a Martin, oramai cinquantaseienne, qualcosa che solo Dovidl poteva insegnarli. Ciò fa scattare in Martin l'idea di ritrovare il fratello, cominciando un'odissea che lo porterà oltreoceano e arrivando a sorprendenti rivelazioni.
Voto 6,5

Questa è una storia di fantasia, come tante scritte e riportate sullo schermo per non far dimenticare ciò che dobbiamo sempre ricordare, l’Olocausto, stavolta da un romanzo di Norman Lebrecht. Siamo nel 1940 quando gli ebrei in Polonia furono perseguitati e tantissimi uccisi dai nazisti, mentre il titolo evocativo fa riferimento al modo di ricordare i morti fino a che non potrebbero essere tutti elencati. Come infatti spiega il rabbino anni dopo la Shoah a Dovidl - che cercava affannosamente notizie sui propri cari di cui nessuno era in grado di fornire informazioni in merito alla loro eventuale sopravvivenza dal campo di sterminio di Treblinka o alla loro morte - prima si sono tramandati a voce l’intero elenco dei morti, affidandolo alla memoria di dieci rabbini e in seguito sono stati trascritti su registri che conservano gelosamente nella Sinagoga e, in quella occasione offerta al giovanotto casualmente, il religioso rivela che per cantare la lista dei morti occorrono cinque giorni. Cinque gironi ininterrotti per nominare i martiri ebrei polacchi dello sterminio nazista. È così che nasce The Song of Names, la musica della memoria, che il giovane polacco suonerà nei tre luoghi chiave e nei tre momenti topici: nel campo dove probabilmente morirono i genitori, il fratellino e la sorellina, nel manicomio dove si trova ricoverato il violinista rivale di gioventù, il teatro londinese dove finalmente si esibisce in pubblico.

È una vicenda lunga, che va dal 1939 fino quasi ai giorni nostri, iniziando con un giovane ragazzo polacco, Dovidl Rapoport, un piccolo prodigioso suonatore di violino, che viene affidato ad una famiglia britannica, i Simmonds, a Londra per poter studiare lo strumento presso un maestro di prestigio, mentre la sua famiglia deve tornare frettolosamente in Polonia. Il ragazzino inizialmente si scontra con il giovane figlio Martin della famiglia che lo ha accolto, ma solo per motivi di gelosia, poi facilmente fanno amicizia e nasce un grande affetto sino a trattarsi come fratelli.

Nel 1951, quando i giovani hanno poco più di 20 anni, Dovidl è pronto per un concerto ma incredibilmente non si presenta: è sparito nel nulla e non si capisce cosa sia successo. Molti anni dopo Martin, che fa parte della giuria di un concorso musicale, visiona un giovanissimo violinista che gli fa tornare in mente il passato e l’amico fraterno scomparso. L’avvenimento emotivo è tale da risvegliare in lui il desiderio di rintracciare l’amico fino a indurlo a decidere che deve assolutamente ritrovarlo, iniziando così una ricerca affannosa viaggiando per diverse città europee e americane. Non troverà pace fin quando non lo avrà trovato, scoprendo però una verità sconvolgente.

Il regista François Girard evidentemente è portato per i film pieni di pentagrammi: è l’autore anche di Violino rosso e L'ottava nota – Boychoir, oltre che di Seta, da Baricco. Il film è dignitoso, con alcune sequenze ben realizzate, altre un po’ meno, ma il messaggio della Memoria e del dramma dell’Olocausto arriva bene allo scopo.

Non ho interesse a parlare propriamente del film e degli aspetti tecnici come al solito, piuttosto è quello intrinseco e morale che stimola una riflessione inevitabile anche se scontata. La guerra è la cosa più insensata che l’uomo possa fare, eppure continua a farla. Ma ancora peggio, se è possibile, è attuare il genocidio. Ce ne sono stati tanti nella Storia e quello che si commemora di più è la Shoah, laddove invece non bisogna dimenticare quello del popolo armeno e di altri. La considerazione che viene in mente, ancora una volta, è quanto soffrano i superstiti. Le vittime della infame sete di sangue e razzismo dell’uomo armato e prepotente hanno sofferto molto, psicologicamente e fisicamente, fino anche a soccombere. Di inedia, di stenti, di gas. Ma quanto soffrono i parenti scampati? Quei superstiti, quegli sfuggiti, quei sopravvissuti soffrono per il banale fatto di essere ancora vivi, come se fosse un peccato essere sfuggiti a quel destino. Portano la pena per non aver sofferto ciò che hanno sopportato i loro congiunti. E sanno che hanno un compito ben preciso, come dice Dovidl prima di sparire ancora e per l’ultima volta: a loro spetta il dovere di ricordare i defunti e di pregare Dio per la loro anima. Quello è il compito affidato, a cui non devono sottrarsi.

Il film ci lascia esattamente questo messaggio, la sofferenza di esserne venuti fuori, per i vari motivi che il destino ha riservato. Perché si era altrove, come il nostro personaggio, perché è andata bene, perché il fisico ha resistito, perché non si è stati tra quelli spogliati e mandati a fare la doccia, perché si era utili a lavori di manovalanza. È la sofferenza di chi è rimasto a ricordare e a pregare con la recitazione del kaddish, come fa nell’ultima scena, seppur non ebreo, il buon Martin che deve ammettere a malincuore di rinunciare al fratello acquisito e che aveva cercato con tanta dedizione.






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