This Must Be the Place (2011)
- michemar

- 12 ott 2022
- Tempo di lettura: 5 min

This Must Be the Place
Italia/Francia/Irlanda 2011 dramma 1h58’
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Musiche: David Byrne, Will Oldham
Scenografia: Stefania Cella
Costumi: Karen Patch
Sean Penn: Cheyenne
Frances McDormand: Jane
Judd Hirsch: Mordecai Midler
Eve Hewson: Mary
Kerry Condon: Rachel
Harry Dean Stanton: Robert Plath
Joyce Van Patten: Dorothy Shore
Olwen Fouéré: madre di Mary
Shea Whigham: Ernie Ray
Heinz Lieven: Aloise Lange
David Byrne: se stesso
TRAMA: Cheyenne, un facoltoso ex-divo del rock, ora stanco e svogliato, apprende che il padre, con cui era in disaccordo, è malato e sul punto di morire. Corre quindi da lui nella speranza di riconciliarsi ma arriva troppo tardi. Solo nel periodo che segue realizza quanto ebbe a soffrire il padre - tra i pochi sopravvissuti ad Auschwitz - per mano di un criminale nazista, l'ufficiale delle SS Aloise Lange. Deciso a vendicarlo, e sapendo che l'ex-nazista si nasconde da qualche parte negli Stati Uniti, si mette in caccia. Durante il viaggio però molti incontri e alcuni eventi lo porranno di fronte a un percorso di autocoscienza e di riconciliazione che richiederà, in finale, delle scelte.
Voto 7,5

Quando durante il Festival di Cannes del 2018, dopo aver assistito alla proiezione di Il Divo, l’attore americano dichiarò a Paolo Sorrentino che avrebbe lavorato con lui in qualsiasi momento, il progetto ebbe il primo vagito ed eccolo qui, Sean Penn, visto come mai prima, in piena tenuta sorrentiniana: boots black 14 fori ai piedi, giubbotto nero, capelli lunghi, trucco pesante, compreso rossetto e smalto, proprio come vestivano i gruppi post-punk inglesi negli anni Ottanta. È la divisa di Cheyenne nonostante ormai abbia cinquant'anni compiuti. Lui se ne frega dell’età. È rimasto come ingessato e legato al suo passato di artista che non l'ha fatto mai davvero crescere dal punto di vista mentale e umano. Girato tra Stati Uniti e Irlanda, il film è incentrato sulla figura di un cinquantenne ex rockstar che da Dublino intraprende un viaggio sulle strade americane alla ricerca del nazista che fu aguzzino del padre: più che una vendetta, il suo sarà un percorso di formazione, alla ricerca della propria identità. Sean Penn, sguardo stralunato e look dark che rievoca moltissimo Robert Smith dei Cure, offre un'interpretazione decisamente in stato di grazia.

Il primo film del regista napoletano in lingua inglese, pur mantenendo la cifra stilistica di un autore a cui tutti riconoscono uno sguardo molto personale di cinema, è un forte segnale di cambiamento del suo percorso artistico e tramite l’attore protagonista intraprende un viaggio che rende il film un vero on the road, che in un certo senso richiama alla mente quello che io ritengo il miglior film di Wim Wenders, Paris, Texas. Tanto che qui non solo è presente l’attore simbolo di quel film (Harry Dean Stanton) ma stavolta non è tanto il paesaggio, pur notevole ed importante, che assume la veste di personaggio come piace fare a Sorrentino, ma è il protagonista stesso che si pone al centro del racconto e attorno a lui si sviluppa la trama e la psicologia della narrazione, contorniato da altri notevoli attori statunitensi e irlandesi, quindi tutti di madrelingua inglese.

Il film inizia in una Dublino grigia e piovosa, dove si è ritirato a vivere con la moglie Jane (Frances McDormand) la ex rock star che fu leader dei Fellows, gruppo (inventato) celebre negli anni '80. L’uomo, nonostante i suoi 50 anni, fatica ad abbandonare i panni del ventenne musicista e continua a indossare abiti neri attillati e anfibi militari, oscillando fra ansia e depressione. Un giorno riceve una telefonata da New York: il padre, dimenticato da trent’anni, sta morendo. Quando arriva a casa del genitore è tardi, il padre è già morto ma Cheyenne trova dei diari e scopre che l’uomo, ebreo sopravvissuto ad un campo di sterminio nazista, non ha mai smesso di cercare un ufficiale delle SS per vendicarsi di un’umiliazione subita. Cheyenne decide quindi di portare a termine la missione intraprendendo un viaggio solitario negli Stati Uniti. Come se sentisse l’obbligo di rimettersi in pari con il padre che ha ingiustamente trascurato. Lo sente come un obbligo morale e per mettere a posto la coscienza. Per il motivo di fondo, si potrebbe definire anche questo come l’ennesimo film dedicato alla caccia dei nazisti. In quel lungo elenco, ci sono casi di spietate indagini e cattura per motivi di giustizia umana, in altri, come questo, diventa una questione quasi privata rispetto allo scenario storico e da tramite agisce la presenza di un personaggio che nel film è un vero cacciatore di nazisti, Mordecai Midler (Judd Hirsch), che non ha mai smesso la sua attività.

Una delle invenzioni geniali del film è senza dubbio la figura di Cheyenne dal punto di vista estetico e il regista stabilisce subito il contatto tra lui e il pubblico per chiarire il personaggio, che nella prima sequenza sta ultimando il suo perenne trucco ritoccando il rossetto e l’eyeliner sul suo pallidissimo viso incorniciato da capelli di color nero corvino che scendono dritti e cotonati sul collo. Questo è lui e se a Dublino sono abituati a vederlo così anche al supermercato, quando girerà mezza America manco ci baderanno, scambiandolo forse per una signora di mezz’età aggrappata al trucco della sua giovinezza. Non ha certo dimenticato i tempi d’oro ma se qualche fan gli chiede di cantare qualcosa lui risponde che ormai non lo fa più, ma il tocco del Sorrentino scrittore si vede tutto quando gli viene osservato “Cantavi con Mick Jagger!” lui ribatte educatamente ma con fermezza “Mick Jagger cantava con me!”. Un atteggiamento sempre calmo, mai agitato, rallentato dal timore che tutto crolli intorno, che perda la quiete che oggi lo tranquillizza. Chissà come faceva ad essere uno scatenato cantante rock, a sentirlo parlare oggi non si direbbe. Sicuramente più look che rock.

Lui si perde nella sconfinata America, senza mai demordere, seguendo la strada che si è imposta, che è la traccia che lo condurrà dove deve arrivare, incontrando anche David Byrne, origine del titolo del film, perché qui è il luogo e forse anche il tempo. Giunto a casa dell'ex ufficiale nazista grazie alle informazioni di Mordecai, Cheyenne compie la sua vendetta, conducendo fuori di casa Aloise completamente nudo e costringendolo così a sopportare temperature bassissime. A opera compiuta, torna in Irlanda con un aereo (di cui prima aveva paura) e all'aeroporto si accende la sua prima sigaretta. Il finale è ancora una scena malinconica e significativa, quando condivide con la madre della giovane Mary uno sguardo d'intesa meno triste del solito ma più ordinario, meno punk. Forse sta chiudendo con il passato della celebrità.

Sean Penn è indubbiamente l’attore che non avevamo mai visto prima e che non rivedremo più, calato in un personaggio memorabile e irripetibile, perché l’accoppiata con il regista è unica e difficile da ritrovare in altri luoghi, tempi, opportunità. Quasi che This Must Be the Place si riferisca appunto alla rara occasione. Paolo Sorrentino resta formidabile anche in questa occasione, in un’opera credo più matura delle precedenti quattro uscite, quasi una svolta: due anni dopo lo aspetta l’Oscar con La grande bellezza. Dirige da par suo, da visionario, seminando tocchi di sorrentinità in ogni sequenza, sia di linguaggio visivo (che lo contraddistingue sempre) che di dialoghi, sempre originali e spiazzanti. Sean Penn è al suo completo e felice servizio, mentre Frances McDormand, duttile com’è di natura, sta al gioco e vi si adegua perfettamente. La fotografia è importante per il cinema del nostro autore e il lavoro del fedele Luca Bigazzi si nota molto; la musica di David Byrne domina.










































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