Trap (2024)
- michemar

- 9 ago
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 11 set

Trap
USA, Canada 2024 thriller, horror 1h45’
Regia: M. Night Shyamalan
Sceneggiatura: M. Night Shyamalan
Fotografia: Sayombhu Mukdeeprom
Montaggio: Noemi Katharina Preiswerk
Musiche: Herdís Stefánsdóttir
Scenografia: Debbie DeVilla
Costumi: Caroline Duncan
Josh Hartnett: Cooper
Ariel Donoghue: Riley
Saleka Night Shyamalan: Lady Raven
Alison Pill: Rachel
Hayley Mills: dott.ssa Josephine Grant
Jonathan Langdon: Jamie
Mark Bacolcol: Spencer
Marnie McPhail: madre di Jody
Marcia Bennett: madre di Cooper
Kid Cudi: The Thinker
Russ: Parker Wayne
Lochlan Miller: Logan Adams
M. Night Shyamalan: zio di Lady Raven
TRAMA: Cooper accompagna la figlia adolescente, Riley al concerto della sua beniamina, la pop star Lady Raven. All’interno del palazzetto, insieme a un fiume di teenager, è concentrata tutta la polizia della città. Il motivo? Catturare l’efferato serial killer noto come Il Macellaio.
VOTO 7

Maledetto Shyamalan! Le pensa tutte! Nei suoi innumerevoli film, le trame sono sempre diverse seppure all’insegna di storie a cavallo tra il thriller e l’horror, quello soft, quello vedibile anche da parte degli spettatori più sensibili. Difatti qui non c’è una goccia di sangue, assenza compensata dalla tensione, non crescente e a volte placata, ma sempre in agguato. La vera novità di questo lavoro è che c’è poco da scoprire: “The Butcher”, il Macellaio in questione è rivelato ben presto, diciamo nel primo quarto d’ora, dal momento che il sospetto ci coglie subito, tutto il contrario di Omicidio in diretta di Brian De Palma, durante un incontro di boxe all’Atlantic City Arena.
Al concerto pieno di deliranti e adoranti teenagers per la divetta pop Lady Raven (Saleka Night Shyamalan, sì, proprio la figlia maggiore del regista, musicista e pop star: sarà un ulteriore trampolino di lancio confezionato dal padre?) che tiene un’esibizione per la generazione Zeta nella Tanaka Arena di Philadelphia (ma il film è stato girato a Toronto), c’è quel ragazzone chiamato Cooper (Josh Hartnett) che accompagna la giovanissima figlia Riley (Ariel Donoghue) tifosissima della star.
Sembra partecipe della gioia della figlia, sembra che si stia sacrificando per la sua felicità, ma pare soprattutto troppo guardingo. Osserva tutto ciò che succede, si guarda intorno come se cercasse una scappatoia: troppe forze dell’ordine per un concerto frequentato da diverse migliaia di ragazzine e non troppi uomini. Che ci fanno? Dalla sua espressione doppia - felice per la figlia, preoccupato per la situazione - si deduce che si sente in trap-pola, che la polizia ha organizzato una gigantesca caccia all’uomo avendo saputo che The Butcher è lì e per uscire deve passare dalle loro forche caudine ed essere finalmente individuato dopo svariati omicidi e smembramento dei cadaveri con strumenti da macellaio, come mannaie e coltellacci. Insomma, non c’è spoiler, il ricercato è proprio Cooper ed il gioco del gatto col topo inventato dalla penna di Shyamalan è tutto sul come e sul quando.
Uomo dalla doppia espressione sta ad indicare la doppia vita del Jekyll / Hide, di Cooper, di professione vigile del fuoco: ottimo padre di famiglia, sposato con Rachel (Alison Pill) e padre di un ragazzino più piccolo, bella casa, che gioisce alla felicità della amata Riley, ma che a causa di (riecco il solito trauma infantile, come un rinnovato Norman Bates) maltrattamenti e incomprensioni, mai chiarite completamente, da parte della madre, ha una doppia personalità e nel tempo libero fa strage di vittime. Ora ha un prigioniero chiuso in una stanza pronto a morire mediante l’emissione di gas velenosi comandato dal suo cellulare per poter ricattare la diva del palco.
Ogni varco è sorvegliato, ogni entrata ed uscita dagli spazi comuni è praticabile solo con il pass dei dipendenti. Centinaia di persone che girano per il palazzetto, tra stand di gadget e bar, tra scale e magazzini: un bailamme in cui lui si mescola in maniera anonima per tenere sotto controllo i movimenti degli agenti e portare a termine il suo diabolico piano. Nel frattempo fa la spola tra il posto prenotato con la figlia e i tanti corridoi e bagni, facendo meravigliare non poco la giovane per il suo irrequieto comportamento. Noi sappiamo, lei e tutti il resto della platea no.
La profiler esperta della FBI Josephine Grant (Hayley Mills) ha diffuso i tratti somatici del ricercato ma lui, con grande abilità e aiutato da una sceneggiatura troppo facilitata fino all’inverosimile (ahiahiahi, Shyamalan, così è troppo semplice!), ruba pass, radio riceventi della polizia, si intrufola dove non si potrebbe e ricava indizi per le mosse future, fino a giungere allo zio della diva (proprio lui, M. Night Syamalan, che si ricava sempre un piccolissimo ruolo nei suoi film) con cui entra in confidenza, gli dice una bugia compassionevole e riesce non solo a far salire sul palco Riley ma va anche nel camerino di Lady Raven con il suo sorriso ambiguo e la ricatta, pena la morte immediata del prigioniero, portandola, con la sua lunghissima limousine, fino a casa sua, con lo stupore della moglie e del figlio.
È riuscito ad uscire nel migliore dei modi dal palazzetto e poi, quando sembra cadere nelle manette, se la cava sempre. Troppo sempre. Troppo facilmente (ahiahiahi, Shyamalan, così è troppo semplice!). Nonostante tutto e qualche caduta di tensione, ma mai acuti da far sobbalzare, si arriva alla fine con più di un colpo di scena. Persino nell’ultima sequenza, perché lui è davvero incontenibile di idee e iniziative. Molto furbo. Come il suo autore, che non ci fa mai odiare il personaggio: ci mette paura ma all’inizio si corre il rischio di empatizzare con lui e questo è un costante espediente che molti registi adoperano per non correre il rischio di rendere insopportabile il protagonista sin da subito. In compenso ci ha reso edotti dopo solo qualche minuto chi è l’efferato macellaio. Come d’altronde la moglie Rachel, che confessa nell’ultimo drammatico incontro prima dell’ennesima fuga che di sospetti ne aveva sempre avuti (ma allora, benedetto M. Night, perché è sempre stata zitta?).
Una trappola al palazzetto ben congegnata ma senza successo anche perché troppo vistosa, mai discreta: come si può pensare di catturare un pericoloso serial killer preparando una parata degna del 4 di luglio? Il concerto è stato organizzato come un’esca e Lady Raven è consapevole del piano e collabora con le autorità, per questo non è mai sembrata eccessivamente spaventata o meravigliata. Certo non si aspettava di trovarselo in camerino e dargli un passaggio con la lussuosa limousine, ma nonostante che le uscite fossero bloccate, le comunicazioni controllate e ogni spettatore monitorato, lui è lì, con il suo sicuro sorriso malefico da malato di mente, nonostante che la specialista profiler abbia spiegato che il killer ha un profilo psicologico preciso e che la sua presenza fosse quasi certa. È il thriller, bellezza!
Per quanto riguarda l’impatto narrativo, quando il protagonista scopre che il concerto è una trappola, il film cambia tono: da thriller psicologico diventa quasi un survival claustrofobico, mentre il pubblico, ignaro, diventa parte di un gigantesco esperimento investigativo e la tensione cresce mentre il cerchio si stringe. Peccato che Cooper sia più furbo e grande improvvisatore. Parallelismi con la società attuale si possono riscontrare nel controllo e la sorveglianza, facendo diventare il concerto metafora di una vita moderna dove nulla sfugge all’occhio delle autorità. Ma lui sì, sempre inseguito anche nelle strade della città. Piuttosto, il protagonista è costretto a confrontarsi con la sua doppia vita e riflettere sulla colpa e l’identità che assume volta per volta. Inoltre, capovolgimento tra spettacolo e inganno: la musica pop è usata come copertura per un’operazione di polizia, ribaltando il concetto di intrattenimento.
Un film che riassume gli ultimi anni di lavoro del cineasta: alti e bassi come i suoi ultimi film, alcuni meno riusciti di altri, ma mantenendo lo spirito del suo cinema, in cui si diverte solo se riesce a spaventare il pubblico. Mai veramente da essere definito cinema horror, ma nel genere ci sta comodo, viaggiando da tracce aliene e vacanze di morte, tra sensi di visione di morti ed esseri fragilissimi come vetro, tra villaggi chiusi a persone solo apparentemente normali che bussano alla porta. Sangue più che raro, tensione tanta, paura molte volte, cattiveria mai.
Hosh Hartnett spaventa con i suoi leggeri e impercettibili tic, merito dei tanti primi piani sui faccioni del protagonista e degli altri interlocutori: ingrandendo i tratti somatici paiono tutti dei mostri ed invece ce n’è solo uno in giro. Bravo l’attore e spontanea la piccola Ariel Donoghue. Attori comunque ben diretti e ottimamente coreografati i balli del concerto, in cui la diva di casa esprime al meglio il suo repertorio alla Lady Gaga (la imita moltissimo) oppure alla Taylor Swift, ormai ispirazione per ogni aspirante al successo. Le musiche scritte da Saleka fanno al caso e ci accompagnano per l’intera durata con 14 brani, per un film che in pratica è girato tutto in tempo reale: non ci sono buchi o salti temporali. Pronti via ed entriamo nel palazzetto, vi sostiamo per tutta la durata navigando tra i tanti luoghi interni, ne usciamo con i protagonisti, viaggiamo con il furgone dell’FBI, dove il regista ci riserva l’ultima sorpresa. Ma sempre e tutti con uno smartphone in mano, per essere connessi sui social che ci hanno sconnessi con la società intesa come consesso umano.
Il film, in conclusione, è ancora una volta l’idea cinematografica di Shyamalan, sia che diriga lui che lo produca (vedi per esempio il film della figlia Ishana, The Watchers - Loro ti guardano). È ciò che preferisce fare ed io lo guarderò sempre, perché anche questo film, che non è piaciuto a tutti, lo trovo interessante, anche con quelle “facilitazioni” di scrittura.

















































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