Truman Capote - A sangue freddo (2005)
- michemar

- 26 set 2021
- Tempo di lettura: 6 min

Truman Capote - A sangue freddo
(Capote) USA/Canada 2005 dramma biografico 1h54'
Regia: Bennett Miller
Soggetto: Gerald Clarke (romanzo)
Sceneggiatura: Dan Futterman
Fotografia: Adam Kimmel
Montaggio: Christopher Tellefsen
Musiche: Mychael Danna
Scenografia: Jess Gonchor
Costumi: Kasia Walicka-Maimone
Philip Seymour Hoffman: Truman Capote
Catherine Keener: Harper Lee
Clifton Collins Jr.: Perry Edward Smith
Chris Cooper: Alvin Dewey
Bruce Greenwood: Jack Dunphy
Bob Balaban: William Shawn
Amy Ryan: Marie Dewey
Mark Pellegrino: Richard “Dick” Eugene Hickock
TRAMA: Kansas, 1959. In una livida mattina di novembre una famiglia di agricoltori, i Clutter, vengono trovati assassinati nella loro fattoria. A New York, intanto, l'omicidio collettivo di Holcomb colpisce e ispira lo scrittore Truman Capote che parte per la cittadina del Kansas accompagnato dall'amica Harper Lee. A interessare lo scrittore sono le reazioni della provincia all'efferato delitto. Ma l'arresto improvviso di Dick Hickock e di Perry Smith, rei del crimine, trasforma la natura del progetto di Truman. Quello che doveva essere un servizio di cronaca da pubblicare su "The New Yorker" diventa il romanzo più ambizioso dello scrittore di New Orleans: "A Sangue freddo".
Voto 8

Nel 1959, quando gli capitò sotto il naso trafiletto sul New York Times che raccontava il massacro dei Clutter (una famiglia di agiati agricoltori del Kansas, sterminati la notte del 14 novembre senza motivo apparente), Truman Capote era già una star della scena newyorkese: famoso per i suoi articoli e per Colazione da Tiffany (recensione), elegantissimo, cinico, sempre scettico e profondamente snob, con la sua taglia minuscola, la sua testa tonda e quella sua voce così nasale e particolare, che solo un attore enorme come Philip Seymour Hoffman era in grado di rappresentare fisicamente e foneticamente. La sua è una immedesimazione totale che sbalordisce, che però non ha nulla del fastidioso mimetismo da imitatore che aleggia spesso nei biopic. Riesce, infatti, ad essere perfettamente ambiguo e persino fastidioso come pare fosse in realtà lo scrittore. Sempre al centro dell’attenzione nei party e nei momenti di socialità, era colui che intratteneva la compagnia con aneddoti e storie forse inventate lì per lì, un po’ strambe ma sicuramente divertenti. Arguto, sagace, spesso salace, intelligente, era un’attrattiva per tutti e vedendolo all’opera – almeno nel film – dava l’impressione che fosse una ricerca continua per non essere trascurato, in cerca di attenzione e affetto, pur avendo una relazione stabile con il compagno di sempre, Jack Dunphy, che lo aspetterà paziente (ma fino ad un certo punto, anche per questioni di gelosia) quando trascorrerà tanto tempo in Kansas e tanti mesi per intervistare e conoscere meglio l’omicida Perry Smith. In quelle occasioni parlava veloce, con il cervello che correva spedito, sparando battute una dietro l’altra, tutto l’opposto di quando si troverà in cella con Perry, nei cui colloqui lo guardava dritto negli occhi, studiandolo attentamente, cercando di capire a fondo la personalità omicida, riflettendo bene prima di esprimersi. Con molta calma. Perché tutto quello che ricavava da quegli incontri gli serviva per un solo scopo: scrivere il libro che gli sta maturando nella mente.

La grande bravura di Bennett Miller è di rendere serpeggiante la sensazione di distacco e nello stesso tempo di attrazione che lo scrittore provava per i due assassini, che però lui sfruttava solo a fini professionali: il regista non ci mostra chiaramente tutto ciò ma ce lo suggerisce di continuo, facendo una fredda esposizione della vicenda e del rapporto che nasce negli incontri in cella tra Capote e quei due (ma soprattutto con Smith) e con le digressioni che seminava qui e là durante la permanenza nel Kansas, nelle numerose chiacchierate con la fidata amica Harper Lee, Nelle per gli amici, con cui era partito. Lei lo conosceva benissimo: lo sopportava nelle sue esternazioni nella società, lo accompagnava volentieri, lo accudiva e accontentava in ogni occasione. Lee aveva appena pubblicato il romanzo che la rese celebre e lui ne era contento, stimandola e provando vero affetto. Il rapporto che nacque tra lo scrittore e l’efferato assassino – perché è a Perry che si avvicina di più, che gli stimola maggiore interesse – era alquanto particolare: l’attrazione che provava era basata sull’estremo bisogno di scrittore di capire esattamente l’animo dell’uomo che aveva di fronte, le motivazioni che lo avevano spinto fino al gesto violento, quale era il passato che doveva aver senz’altro influito sulla sua (dis)educazione, che tipo di uomo era. Quindi, solamente per poter scrivere il romanzo, ancora sopito dentro, nella maniera più giusta, più fondata umanamente e socialmente. Lo osservava, lo scrutava con gli occhi sottili mentre l’altro si confidava, gli faceva domande precise e quando scoprì la difficilissima infanzia e adolescenza vissute si commosse e confessò di aver vissuto una esistenza molto simile: anch’egli fu abbandonato dalla madre, che cambiava spesso uomini, lo chiudeva in vari motel a piangere fino allo sfinimento e al sonno, crebbe presso parenti, non ebbe mai quell’amore materno che fa cresce sani i ragazzini. Storie di vita, madri, fanciullezze così uguali che si sentì vicino e cercò di capirlo, senza ovviamente mai giustificare la violenza. Tanto da fargli capire direttamente che lui non gli era amico, deludendo le attese del detenuto: lo ascoltava solo per motivi di scrittura. Anzi, per tenerlo vivo, per allontanare la condanna di pena capitale gli offrì un avvocato, sperando di riuscire a completare i colloqui e poter scrivere la storia di quel feroce episodio di tre anni prima. Infatti, confidava alla intima Nelle, che rimase basita: “È come se io e Perry fossimo cresciuti nella stessa casa, e un giorno lui se n’è andato dalla porta di dietro e io da quella davanti.” Era il libro più importante della sua vita, lo sentiva, ce l’aveva già chiaro nella mente ma gli mancava il finale: la condanna a morte e l’esecuzione della pena capitale, che doveva essere la degna conclusione del romanzo chiamato In Cold Blood.

Ecco allora un esempio lampante della versatilità e dello straordinario talento che animava Philip Seymour Hoffman, questa volta nei panni del famoso scrittore. Per somiglianza e bravura, l'indimenticabile attore dà una ulteriore e definitiva prova della sua eccelsa recitazione, che ovviamente si può apprezzare solo se proviamo a seguirlo in versione originale. Ma incredibilmente questa fu l'unica occasione per premiarlo con l'Oscar. Unica! Intanto, il personaggio visto e ritratto da Bennett Miller ripropone la magnifica ossessione dell'artista: la creazione, ad ogni costo. E questo è già uno scopo impegnativo per l’interessante regista che, pur non ripetendosi allo stesso livello, poi si è confermato con L'arte di vincere - Moneyball (recensione) e lo spiazzante Foxcatcher - Una storia americana (recensione), dimostrando le qualità non comuni di autore. Ha diretto con autorevolezza un animale di razza della recitazione come P.S.H. lasciandogli, come immagino, margine di libertà affinché costruisse appieno l’importante e complesso personaggio affidatogli. Una menzione doverosa va fatta per il bravo Clifton Collins Jr. che normalmente lavora nelle seconde linee: il suo Perry Edward Smith lo interpreta in maniera eccellente, misurata ed efficace, facendoci capire una personalità non semplice da spiegare, che lo stesso individuo definiva: “Qualcosa di storto dobbiamo averlo, per fare quello che abbiamo fatto.” Ancora più bravo nella sequenza in cui, dopo le insistenze di Capote, riesce a ricostruire i momenti terribili della notte della strage familiare, che, a suo dire, non doveva andare come poi è andata a finire.

Ma a proposito dello scrittore, è importante seguire le vicende della sua vita dopo questa storia, dopo che egli assistette con commozione – come si vede nel finale del film - alla esecuzione dell’impiccagione dell’assassino. Un epilogo non molto fortunato, dal momento che l'ultimo periodo della sua vita fu contrassegnato da relazioni fallimentari con uomini che ebbero come unico fine il suo denaro. Truman, ormai intossicato dai sonniferi, sviluppò una grave forma di epilessia, che unita all'abuso di superalcolici ne compromise velocemente la salute. Ritiratosi dal bel mondo, rinnegato dai divi della high society, sfruttato dagli amanti e abbandonato da Jack Dunphy, il compagno di sempre, Capote passava intere settimane a letto, a bere e dormire. Venne ricoverato varie volte in ospedale a New York e intraprese due percorsi di disintossicazione che non sortirono effetti apprezzabili a lungo termine.
Truman Capote morì per una cirrosi epatica il 25 agosto 1984, mentre si trovava a Bel Air, ospite della fedele amica Joanne Carson (ex moglie di Johnny Carson), poco più di un mese prima del suo sessantesimo compleanno.

Intanto non aveva voluto scrivere più nessun romanzo e si limitò soltanto all’epigrafe per quell’ultimo libro che non completò mai: Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte.
Gran bel film, nobilitato dalla recitazione di uno dei più grandi attori di questi decenni, che decise di lasciarci come più o meno era successo al suo eccezionale Truman “Capouti”.






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