Un’altra donna (1988)
- michemar

- 10 gen
- Tempo di lettura: 7 min

Un’altra donna
(Another Woman) USA 1988 dramma 1h21’
Regia: Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Sven Nykvist
Montaggio: Susan E. Morse
Scenografia: Santo Loquasto
Costumi: Jeffrey Kurland
Gena Rowlands: Marion Post
Mia Farrow: Hope
Ian Holm: Ken
Gene Hackman: Larry Lewis
Blythe Danner: Lydia
Martha Plimpton: Laura
Sandy Dennis: Claire
John Houseman: padre di Marion
Harris Yulin: Paul
Kenneth Welsh: Donald
Frances Conroy: Lynn
Josh Hamilton: fidanzato di Laura
Philip Bosco: Sam
TRAMA: Marion è professoressa di filosofia newyorkese sposata con un celebre medico e sta scrivendo il suo nuovo libro. Si trova in piena crisi d’identità. Un giorno si accorge che attraverso una parete può seguire i colloqui in corso nell’attiguo studio di uno psicanalista. Finisce per identificarsi con una delle pazienti, Hope, e attraverso di lei si ritrova a fare i conti con se stessa.
Voto 7,5

Siamo nel periodo apicale del regista come drammaturgo, come discepolo ispirato dal maestro Bergman, come scrittore che esplora l’universo complesso del femminile. È ormai una decina d’anni che se ne occupa se si considera che Interiors è del 1978 e ne scrive ancora subito dopo l’altro dramma in cui ha chiesto a Mia Farrow di esprimersi al meglio con Settembre. Ecco ora un’altra donna, anche come titolo, di una serie in cui ha cercato di approfondire il carattere di una persona non facile da inquadrare e che si ritrova in piena crisi di identità. Donna che si autopresenta nella primissima sequenza in cui veniamo a conoscerla e a inquadrarla nell’ambito dello scorcio di vita che Allen ci narra.

Mentre il regista inquadra il corridoio dell’appartamento in cui vive (si ripete, cioè, una veduta degli interni, così come nell’inizio di Settembre), ascoltiamo la sua voce: “Se a cinquant’anni mi avessero chiesto di fare il punto della mia vita, mi sarei detta piuttosto soddisfatta, personalmente e professionalmente. Di più avrei preferito non approfondire. Non che temessi di scoprire lati oscuri del mio carattere, ma ho sempre pensato: se qualcosa sembra funzionare lasciala stare. Mi chiamo Marion Post, sono la direttrice della facoltà di filosofia in un ottimo college femminile, benché ora sia in aspettativa per iniziare a scrivere un libro. Mio marito è un cardiologo molto quotato, che qualche anno fa mi visitò il cuore, gli piacque ciò che vide e si fece avanti. È il secondo matrimonio per entrambi e lui ha una figlia sedicenne che vive con la sua ex moglie ma ci viene a trovare spesso.”

La situazione è chiara subito: Marion (Gena Rowlands) è una matura intellettuale di forte carattere ed è in quel periodo della vita in cui spesso capita di fare il punto sullo scorcio di vita vissuta fino a quel punto e si guarda avanti pensando e sperando che tutto procederà per il meglio, senza scossoni. Per scrivere il libro che si è prefissato, dati i disturbi che riceve da lavori in corso nel condominio, ha preferito affittare un appartamento per stare tranquilla e concentrarsi meglio. Ma così non andrà perché ciò che accadrà le darà una notevole svolta: succede infatti che per uno strano effetto sonoro, dalla bocchetta dell’aria condizionata le giungono le voci dallo studio di uno psicanalista situato a fianco e involontariamente ascolta la seduta di una donna in piena crisi esistenziale, Hope (Mia Farrow). In cerca di silenzio e concentrazione, prova a coprire la fonte delle voci con dei cuscini ma la curiosità e l’interesse per ciò che dice quella donna la spingono ad ascoltare con maggiore attenzione. Fino ad immedesimarsi, ad immaginarla, a cercare di spiarla all’uscita dallo studio.

Come nei tanti film di Allen, i suoi protagonisti hanno una vita sociale molto attiva, con party (e via con i tanti bicchieri di alcool) chiacchiere, battute, appuntamenti per altre occasioni. I consueti intrattenimenti della società borghese che si traduce in ipocrisie, amicizie vere e false, tradimenti anche occasionali. E passo dopo passo, dialogo dopo dialogo, Allen ci spiega il carattere di ogni personaggio, che lo spettatore comincia ad incasellare nel puzzle della trama e delle vicende che man mano si sviluppano. E come sempre, la realtà non è mai quella che pare al primo sguardo specialmente quando si scoprono le reali intenzioni di tizio e caio e dei veri sentimenti che corrono tra di loro. Figuriamoci all’interno di una coppia borghese e facoltosa al loro secondo matrimonio i cui coniugi limitano i gesti affettivi al minimo anche se sono sempre formalmente gentili. Lui, Ken (Ian Holm), si è lasciato male con la ex moglie ma è parco di mosse amorevoli, mentre lei è tutta presa dalla scrittura e dai ricordi per aver rifiutato, in contemporanea con il nuovo matrimonio, le insistenti avances di un uomo che si dichiarava appassionatamente innamorato di lei, Larry (Gene Hackman), respinto a fatica e a cui quasi cedeva.

Gli indiscreti ascolti delle sedute terapeutiche della Hope, incinta (l’attrice lo era per davvero di Allen), la spingono vieppiù a riflettere sulla sua vita, a maggior ragione quando scopre per puro caso il tradimento del marito, durante un pranzo che offre alla sconosciuta paziente finalmente incontrata e fermata. In lei qualcosa si era risvegliato, specialmente perché aveva incontrato una cara vecchia amica, Claire (Sandy Dennis), con suo marito, uomo con cui aveva stabilito una certa complicità di gusti letterari e teatrali: questa sintonia e simpatia le aveva ricordato quanto sia bello essere desiderate e stimate. Succede a tutti, tirando avanti il rapporto coniugale in modo monotono e ripetitivo, che ricevendo attenzioni inattese, si risvegli la voglia di essere corteggiati e voluti. Marion scopre così, quasi assieme, sia il tradimento inatteso e sconvolgente, sia scoprirsi interessante per un uomo diverso dal marito deludente e ne resta scombussolata e profondamente turbata. Perché non aveva accettato a suo tempo la corte serrata dell’insistente Larry?

Qualche flashback, importanti momenti onirici quando lei vaga con la fantasia in situazioni più desiderate che avvenute, visioni di incontri in prima persona che amerebbe fare, ritorno alla realtà molto differente da quella che amerebbe, il tradimento, le reazioni alle confessioni da divano che ascolta. Tutto contribuisce al suo turbamento, alla crisi identitaria, alla voglia di dare una definitiva svolta alla vita, al ripensamento di ciò che è stato, è e che sarà; il trauma vissuto da adolescente ricordando il severissimo padre (John Houseman) maltrattare e pretendere troppo dal fratello Paul (Harris Yulin, da adulto), i durissimi litigi con il primo marito Sam (Philip Bosco). Un passato di certo non facile ed un presente che la sta solo illudendo: l’agiatezza borghese è solo una maschera teatrale, come quella data in regalo a Sam, una autentica, servita in una produzione francese de “La Gioconda”, simbolo di riconciliazione con il passato e tentativo di affrontare i ricordi e le emozioni che ha represso per anni. Proprio in quel negozio di oggettistica di vario genere e vario periodo artistico aveva incontrato Hope (veramente o è un sogno o desiderio?) che piangeva davanti al dipinto di Klimt “La speranza”, una donna nuda incinta che provoca nella giovane donna un pianto di tristezza, provando quindi un’emozione opposta alle intenzioni ottimistiche del pittore. Hope spiega che una volta dipingeva ed ora le manca tanto. Esattamente come Marion, che ha rinunciato anche a questo per la vita che conduce oggi.
Rinunce, ripensamenti, pentimento di non aver realizzato quello che sognava in gioventù, condizionata dalle scelte attuali, dagli uomini forse sbagliati entrambe le volte, rinunciando a chi le giurava amore e passione. “Forse ricerchiamo un po’ tutti il tempo perduto” sente dire dall’altra. Amara considerazione che apre ferite mai ricucite, assieme alla incipiente vecchiaia: il sorriso di Marion è sempre triste, pare convenevole, di circostanza, sia verso gli altri che verso se stessa, come per perdonarsi le occasioni buttate alle spalle. Ma il tradimento subito è una sconfitta irrimediabile oppure può essere l’occasione giusta per cambiare la vita, mettendo così a confronto l’autentica profondità del suo bisogno di emozioni e l’intensità spaventosa di una passione che ha ignorato troppo a lungo. La scrittura di Allen è amara e precisa, cucita su misura su una donna che si accorge che non ha vissuto la vita che avrebbe voluto, troppo trattenuta da se stessa e dalle circostanza non favorevoli, è un urlo alla indipendenza quando ancora le donne non reclamavano la libertà che hanno chiesto a gran voce a decenni di distanza, eccettuati i movimenti sessantottini che però riguardavano tutti i giovani. Si può scoprire tutto ciò in un film di Woody Allen girato nell’88 solo oggi? Con gli occhi di oggi sì, allora era una meravigliosa descrizione della personalità di una matura donna di Manhattan, con i suoi viali, i marciapiedi calpestati mille volte dai personaggi del regista e da lui stesso, i vialetti e i ponti dell’immancabile Central Park. È la sua eterna New York.
Il diciottesimo film trionfale di Woody Allen vanta un cast superbo con attori di prima classe su cui emerge imperiosamente Gena Rowlands, la cui bravura oscura un gruppo molto bravo ma eclissato dalla immensa classe dell’attrice. Stilisticamente ricco e tecnicamente maturo, il film sovrappone passato e presente, dialogo e narrazione, realtà e metafora, per raggiungere una lucidità e una compassione quasi sconosciute ai film americani, direi impensabile. Chi mai si sarebbe messo a scrivere e girare film di questo contenuto? Forse solo il marito dell’attrice, quel John Cassavetes che le stilò copioni a misura del suo talento e dai significativi ruoli di donna sofferta. Ma la particolarità di Allen, in questo periodo d’oro della sua lunga carriera, è l’estrema vicinanza di visione e scrittura a Ingmar Bergman, a cui in questa occasione ruba perfino, oltre all’ispirazione e allo stile, il direttore della fotografia, quello Sven Nykvist che ricrea, assieme al resto del cast tecnico habitué i colori bergmaniani nell’ambientazione newyorkese, un connubio splendido. Dentro, un mondo che invita a mentire anche a se stessi, a fingere, a recitare con la maschera, e più dentro ancora, nell’intimo, l’abisso vuoto e cinico. Fin quando ci si risveglia, come Marion, e allora ci si guarda attorno e dopo aver rimpianto e capito gli errori - no, non va bene “se qualcosa sembra funzionare lasciala stare”, no, bisogna reagire. Tornando a leggere il libro che Larry aveva scritto pensando a lei, si rende conto di quale passione sarebbe stata capace, mai espressa. Chiudendo il romanzo nell’ultima scena, si accorge di provare uno strano misto di malinconia e di speranza, con la domanda “se un ricordo è una cosa che si ha o una cosa che si è persa.”
Come al solito, soprattutto in questo suo periodo, Allen accompagna le immagini con brani ricercati: Erik Satie, Bach, Cole Porter, Gustav Mahler.




















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