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Un sapore di ruggine e ossa (2012)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 12 ott 2021
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 4 apr 2023


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Un sapore di ruggine e ossa

(De rouille et d'os) Francia/Belgio/Singapore 2012 dramma 2h


Regia: Jacques Audiard

Soggetto: Craig Davidson

Sceneggiatura: Jacques Audiard, Thomas Bidegain

Fotografia: Stéphane Fontaine

Montaggio: Juliette Welfling

Musiche: Alexandre Desplat

Scenografia: Michel Barthélémy

Costumi: Virginie Montel


Marion Cotillard: Stéphanie

Matthias Schoenaerts: Ali

Armand Verdure: Sam

Céline Sallette: Louise

Corinne Masiero: Anna

Bouli Lanners: Martial

Jean-Michel Correia: Richard

Mourad Frarema: Foued

Océane Cartia: babysitter

Fabien Baïardi: Pierre


Trama: Nel sud della Francia, l'addestratrice di orche Stephanie si ritrova improvvisamente costretta sulla sedia a rotelle in seguito ad un tragico incidente accadutole durante lo show al Marineland d'Antibes. Un giorno conosce il giovane Ali, che si arrangia con piccoli lavori e arrotonda con combattimenti clandestini, e suo figlio di 5 anni Sam. Tra i due nasce un'amicizia che più tardi, dopo che Ali rischierà di perdere il figlio, si trasformerà in qualcosa di più importante.


Voto 7,5

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Someday my pain

Someday my pain will mark you

Harness your blame

Harness your blame, walk through

(Un giorno il mio dolore

Un giorno il mio dolore ti lascerà un segno

Imbriglia la tua colpa

Imbriglia la tua colpa, passaci oltre.)


Reduce dal successo de Il profeta (il suo miglior film ad oggi, Gran Premio della Giuria di Cannes 2009 alla regia), Jacques Audiard sceglie ancora una storia sui suoi personaggi forti ma nello stesso tempo deboli e oppressi dalle vicende della vita o da altri uomini, traendo ispirazione da alcuni racconti brevi di Craig Davidson. Così era stato per la Carla sordomuta di Sulle mie labbra, per il Thomas di Tutti i battiti del mio cuore o per il risoluto Malik del film precedente. Ma sarà identica la scelta anche per Dheepan - Una nuova vita, immigrato clandestino nella giungla della banlieue parigina. Stavolta il protagonista è Ali, 25 anni, che è grande e grosso, non ha un soldo e con il figlio di 5 anni, sinora vissuto con la madre, attraversa la Francia per arrivare in Costa Azzurra, dove vive ad Antibes la sorella Anna, cassiera in un supermercato. Per guadagnare qualche soldo, comincia a lavorare come buttafuori in una discoteca dove una sera conosce Stéphanie, la bella e piuttosto sprezzante addestratrice di orche del parco acquatico della città. Poco dopo, la tragedia sconvolge la vita della donna causandole l’amputazione delle gambe. Ma Ali non se ne cura e per Stéphanie il rapporto con quel gigante, allo stesso tempo servizievole e anaffettivo, diventa inaspettatamente il gancio che le serve per restare attaccata alla vita, che dopo il trauma le sembra invivibile. In un certo qual modo, quindi, i personaggi centrali sono forse due, non solo il solito uomo, ma anche una donna, che sbandata non era ma lo è diventata, disperata dal traumatico risveglio in ospedale quando sul letto scopre che le sue gambe attraenti – che mostrava con piacere indossando provocanti minigonne nelle serate alcoliche e rissose dei locali notturni – terminano all’altezza delle ginocchia per colpa delle sue amate orche addestrate nel noto Marineland di Antibes. Non lo nega, le piaceva piacere, le piaceva mostrare ed essere ammirata, ma adesso… Adesso, ha cercato persino di farsi del male con un bisturi sottratto dal comodino del letto d’ospedale.

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Ali è grande e grosso, non ha un’espressione molto intelligente ma è parecchio sveglio e si presta subito a qualsiasi lavoro provvisorio pur di sbarcare il lunario e mantenere quel vispo del suo bimbo, irrequieto e un po’ inselvatichito senza mamma e senza scuola. Si allena in palestra, avendo avuto già esperienza di pugilato e adesso un suo datore di lavoro, il losco Martial, lo ha adocchiato per via del fisico adatto per gli incontri clandestini di boxe, dove girano parecchi soldi. Stéphanie si illude ricevendo da lui aiuto psicologico e nel quotidiano pratico: la porta, contro la sua volontà, in spiaggia e a bere qualcosa. Lei si ammorbidisce, accetta, torna alla vita, imparando addirittura a camminare con le protesi. Il seme piantato da quell’omone, che solo apparentemente è senza cuore, le germoglia il ritorno alla vita e lo guarda come più che un amico. Ma Ali non è quello che lei crede di aver capito. Ali è un uomo ma ha la sensibilità di un bambino, non è addomesticato (educato sarebbe troppo) dalle e alle buone maniere, è privo di filtri, dai sentimenti misteriosamente monchi. Monchi come le gambe di lei, e la sua sintonia con Stéphanie non nasce dalla compassione (termine troppo altruista), ma dall’istinto naturale di ricondurla alla vita, da un percepire puramente animale (anche la donna conosce quel linguaggio, infatti sa comunicare con le orche, ma è un altro discorso). La camera, come sempre instabile di Audiard, segue empatica la storia dei due, muovendosi in sincrono coi loro corpi - carne, muscoli, arti, tendini -, aderisce allo sforzo di una fisicità sempre esasperatamente al centro della rappresentazione.

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Quando pare che i due possano veramente avvicinarsi avviene invece il distacco, perché Ali non ha mai cercato davvero la compagna che lei credeva di essere diventata, ma proprio durante quella lontananza succede la tragedia che li accosterà di nuovo e farà il miracolo di umanizzare i sentimenti dell’uomo. Tutto ci si poteva attendere tranne che dicesse, nel finale che rischiara l’orizzonte, “Ti amo”. Perché molto spesso i protagonisti del regista francese alla fine trovano il loro equilibrio, legale o meno non importa, ma lo trovano. Come il magnifico Tahar Rahim che si avvia scortato dai suoi uomini fuori dal carcere a piedi, per esempio. La morale (ce n’è nei racconti di Audiard?) è che chiunque ha il diritto di cambiare il proprio destino. Il suo cinema è sempre carne, anche strappata, è eccesso di vitalità, di sopravvivenza nella guerriglia quotidiana, è capacità di tornare a vivere come quando Stéphanie, aldilà del cristallo dell’acquario, riprova l’ebbrezza dei gesti dei comandi sulle orche, capace ancora di farsi obbedire, provando una soddisfazione psicologica pari a quella del primo sesso fatto con Ali solo per controllare “se funziona ancora”. E sì, funzionano tutte e due le cose, e molto bene, tanto da voler riprovarci. Con il sesso. A richiesta. È sufficiente un SMS. Con la sfrontatezza dei tatuaggi (DESTRO, SINISTRO) marchiati sulle monche cosce.

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Jacques Audiard si sporca sempre le mani e ama osservare da vicino le ferite aperte, ce le mostra sanguinanti, le riprende mentre provano a rimarginarsi, pronte a riaprirsi, aspettando che succeda qualcosa affinché si materializzi la cicatrice, che però, sia chiaro, non sparirà mai e i suoi antieroi la guarderanno sempre come una foto ricordo, come un punto fisso del loro curriculum. Il suo cinema non lascia mai insensibili: o sei partecipe o ti alzi e te ne vai. Ma succede sempre il primo caso, provocando ogni volta un impulso di complicità. Questo film, per esempio, è sangue, promesse disattese, muscoli e tendini tesi come i personaggi, ossa rotte per la disperazione, sensualità e dolore. Elementi mescolati senza retorica perché i suoi emarginati non sanno neanche che esiste: esplodono uno dietro l’altro e schizzano sullo schermo. Forse è anche un noir, ma melodrammatico, in cui lei si alza in piedi e lui rischia di restare a terra. Quel “ti amo” li incollerà alla vita, ma non si sa fino a quando. Forse. Molto probabile. Una regia spietata e sacra, vibrante e limpida, mentre i due attori, totalmente complici, si adattano a quelle cicatrici. Matthias Schoenaerts fu una rivelazione: carnale e ingombrante, fu premiato come miglior promessa maschile ai César del 2013. Marion Cotillard, con quel sorriso luminoso che racconta sempre, tutte le volte, una malinconia infinita, è un sole che rischiara il buio delle marginalità, costantemente inquadrata mentre il sole non è mai alto, neanche sulla spiaggia: una luce trasversale – come le loro due vite – che le accende la voglia di tuffarsi e nuotare, solo con la forza delle braccia. A quei César fu superata dalla Emmanuelle Riva di Amour di Haneke, ma che splendida attrice! Montaggio adeguatissimo di Juliette Welfling con splendida fotografia di Stéphane Fontaine (donne eccellenti) e musiche di Alexandre Desplat: che pretendere di più?

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Sì, si può e arriva con lancinante aderenza la voce di Bon Iver sui titoli di coda imperdibili:

Someday my pain

Someday my pain will mark you

Harness your blame

Harness your blame, walk through

Golden Globe 2013:

Candidatura miglior film straniero

Candidatura miglior attrice in un film drammatico a Marion Cotillard

BAFTA 2013:

Candidatura miglior film straniero

Candidatura miglior attrice a Marion Cotillard


 
 
 

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