Un vizio di famiglia (2022)
- michemar

- 10 set
- Tempo di lettura: 5 min

Un vizio di famiglia
(L’origine du mal) Francia, Canada 2022 dramma/thriller 2h3’
Regia: Sébastien Marnier
Sceneggiatura: Sébastien Marnier
Fotografia: Romain Carcanade
Montaggio: Valentin Féron, Jean-Baptiste Beaudoin
Musiche: Pierre Lapointe, Philippe Brault
Scenografia: Damien Rondeau
Costumi: Marité Coutard
Laure Calamy: Nathalie / Stéphane
Jacques Weber: Serge
Doria Tillier: George
Dominique Blanc: Louise
Suzanne Clément: Stéphane
Céleste Brunnquell: Jeanne
Véronique Ruggia-Saura: Agnès
Naidra Ayadi: Leila
TRAMA: Gelosia e amarezza corrompono la famiglia di Stéphane che si inventa tutta un’altra vita per impressionare l’uomo ricco e le donne che la circondano.
VOTO 7

Chi è davvero Stéphane? Eh, bella domanda. La donna (Laure Calamy) che lavora alla catena di montaggio di una fabbrica che confeziona alici sott’olio, fa regolarmente visita alla sua ragazza che è detenuta in prigione. Rimasta sola, ha cercato le tracce di Serge (Jacques Weber), il padre biologico, trovando il coraggio di contattarlo. Lo incontra e conosce così un anziano distinto e affascinante, un ricco imprenditore che la accoglie calorosamente e la invita subito nella sua lussuosa villa sul mare della Costa Azzurra. Ma questi non vive da solo, essendo circondato da un nido di vipere al femminile: Louise (Dominique Blanc), moglie estrosa che sperpera i suoi soldi in modo compulsivo da malattia psichiatrica, sua figlia George (Doria Tillier) che sta cercando di rilevare avidamente l’azienda di famiglia, Jeanne (Céleste Brunnquell), la figlia di quest’ultima, una studentessa che vuole diventare fotografa, e Agnès, la governante subdola e ladra. Stéphane, ovviamente, vista come una che vuole approfittare, non è assolutamente la benvenuta nella famiglia, tanto da essere praticamente cacciata all’insaputa del vecchio che invece è felice di averla ritrovata.
Siccome Stéphane perde la stanza dove viveva, Serge le offre di andare a vivere da loro, sollevando le reazioni maligne delle altre. Solo ora si accorge che il padre è disprezzato, molestato quotidianamente da sua moglie e sua figlia che lo considerano senile, violento e inadatto a gestire l’azienda. Serge si confida con Stéphane e gli apre le porte del suo ufficio e della sua eccezionale cantina, le uniche stanze a cui ha sempre proibito l’accesso a famiglia e cameriera. La verità è che conta su di lei per portarla dal giudice prima che le arpie che volteggiano nella villa lo estromettano dalla ingente proprietà di alberghi e ristoranti di lusso ed esclusivi.
Con la sua terza opera, il regista Sébastien Marnier, dopo Irréprochable (inedito da noi) e lo spiazzante L’ultima ora, prosegue l’esplorazione di un cinema fatto di inganni visivi e narrativi, del colpo di scena seguito da un altro. Ancora una volta, ci troviamo davanti a una storia che gioca con le percezioni dello spettatore, lo conduce lungo sentieri familiari per poi ribaltarli con gusto dialettico e ironia pungente. Questo succede perché, tra illusione e scetticismo, anche da parte dello spettatore incredulo sul susseguirsi degli avvenimenti, il regista si diverte a costruire un punto di vista apparentemente solido, solo per smontarlo subito dopo. Marnier, infatti, privilegia l’aspetto narrativo e la riflessione politica tramite prospettive alternative, più che la ricerca della verità: il suo cinema è una critica sottile alle convenzioni, una satira che si muove tra i grandi autori che abbiamo conosciuto in passato (leggi Chabrol e Buñuel) senza disdegnare tocchi di surrealismo.
Al centro della vicenda c’è Stéphane, una donna dal nome maschile, esattamente come l’altra figlia (George, perché lui avrebbe preferito figli maschi, dopo che l’unico che aveva era sparito da un giorno all’altro, fuggito per le scelte sessuali). È operaia precaria e sola, la cui compagna è in prigione. Il suo conflitto familiare è evidente: non ha famiglia e si presenta emozionata e titubante davanti ad un vecchio uomo come la figlia di una delle tante amanti che lui ha avuto. Sembra un film drammatico, diventa una commedia grottesca, si evolve in un noir dalle tinte fosche criminose. Qual è la verità, chi è Stéphane?
Insomma, nulla è come sembra, ogni elemento della trama è costruito per ingannare. Marnier ci prende in giro, ci confonde, thrillerizza il cinema di De Palma e lo fa diventare Hitchcock e lo condisce di asprezze cattive e pungenti, alla Chabrol, per farla breve, con una creatura (film e protagonista) grottesca e double face. Il risultato è un film che mescola thriller e dramma, con uno stile visivo audace - l’uso dello split screen è furbo e intelligente, adattandolo continuamente fino ad arrivare ad inquadrare quattro personaggi - e interpretazioni sopra le righe, ma sempre efficaci. Anzi, direi che più la recitazione lo è, più rendono l’idea del climax del film.
L’attacco della donna al regno animalesco della famiglia (la enorme villa contiene, tra le tante suppellettili inutili e kitsch, molti esemplari di animali imbalsamati, pare la casa della tassidermia) è anche una lotta di classe: l’operaia all’assalto della ricchezza ridondante e sfrontata, un neo-conflitto sociale che sfocia nell’intrigo. Un’opera sulla crisi contemporanea, quindi? Niente affatto: l’ultima parte riserva il meglio dei colpi di scena, fino a restarne tramortiti. Nel senso letterale. E solo un banale errore (l’espediente mi è sembrato forzato e quasi incongruente, ma vabbè) fa andare all’aria il piano premeditato (no spoiler): un twist che parte da lontano e finalmente plana, atterrandoci tutti. Accidenti che sorpresa!
La storia, che inizia come una fiaba - difatti ci sono una matrigna, una sorellastra, una governante degna degli Addams, passaggi segreti che portano al mare - in cui la ragazza sfortunata attraversa il confine tra la realtà quotidiana e un mondo fuori dal mondo, è in verità un racconto dai tanti aspetti da spiegare, tutti misteriosi. Ad iniziare da come si chiama l’amante carcerata della protagonista, dal passato segreto di Stéphane e dalle bugie che dice alla nuova famiglia in cui spera di insediarsi, fino a ciò che commette in ospedale nella camera del padre morente, e per finire – quando canonicamente tutto stava andando per il meglio – la botta finale. Diavolo di un Sébastien Marnier!
Tutto il cast è all’altezza della situazione e i complimenti vanno di diritto a tutti, maschi (pochi) e femmine (tante e tigri) ma la bravura, la forza, la simpatia e la versatilità di quella potenza umana chiamata Laure Calamy è un discorso a parte. Dalla commedia (Io, lui, lei e l'asino), al dramma (Full Time - Al cento per cento) ed ora al thriller noir (per non parlare del tanto teatro e TV, non sta mai ferma), va bene tutto, va bene in tutto, perché è sempre superlativa, senza neanche rifiutare di farsi filmare dal regista all’insù esaltando la forma del naso più bravo di Francia. Ma brave tutte perché sanno esplicare il carattere dei loro personaggi con ottima qualità, a cominciare dalla eccellente Suzanne Clément, musa del Xavier Dolan dei tempi d’oro.
I cinefili non possono non apprezzare l’utilizzo dello split screen, che qui diventa un mezzo esplicativo e lo osserviamo in ben diversi momenti, come, per esempio, nella scena della colazione dove è fondamentale per mostrare come Stéphane parta da una posizione centrale per assumerne progressivamente una compressa, marginalizzata, perché la famiglia la vampirizza. In un’altra scena serve al parallelo fra le vite dei personaggi, un’altra volta ancora fa sì che la suspense si tenda in maniera intollerabile.

Un ritratto di famiglia caustico chabroliano (la fine del patriarcato?) per dimostrare che, che nell’origine del male (come dice il titolo originale, L’origine du mal) nulla è come sembra. Ma proprio nulla!



































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