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Una intima convinzione (2018)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 8 nov 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 26 dic 2023


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Una intima convinzione

(Une intime conviction) Francia/Belgio 2018 dramma 1h50’

Regia: Antoine Raimbault

Sceneggiatura: Antoine Raimbault, Isabelle Lazard, Karim Dridi

Fotografia: Pierre Cottereau

Montaggio: Jean-Baptiste Beaudoin

Musiche: Gregoire Auger

Scenografia: Nicolas de Boiscuillé

Costumi: Isabelle Pannetier

Marina Foïs: Nora

Olivier Gourmet: avv. Éric Dupond-Moretti

Laurent Lucas: Jacques Viguier

Philippe Uchan: Olivier Durandet

Steve Tientcheu: Bruno

Léo Labertrandie: Félix

Armande Boulanger: Clémence Viguier

François Fehner: Jacques Richiardi

François Caron: avv. Laurent de Caunes

Philippe Dormoy: pubblico ministero

Jean-Claude Leguay: avv. Debuisson

Roger Souza: Jean Viguier

TRAMA: Assistendo al processo contro Jacques Viguier, accusato dell'omicidio della moglie, Nora si convince della sua innocenza. Temendo un errore giudiziario, convince il miglior avvocato su piazza a difenderlo in appello. Man mano che stringono i tempi, Nora intraprende una ricerca della verità che si trasforma presto in ossessione.

Voto 6,5

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Il giovane regista Antoine Raimbault ha lavorato come redattore per diversi anni e nel frattempo si dedicava al cinema, così che dopo quattro cortometraggi si è deciso a passare al lungo mediante una storia vera che riguarda la sua vera passione: le questioni di giustizia. Infatti, questo suo primo film si occupa di una vicenda che in Francia riscosse molta attenzione, il caso di Suzanne Viguier, quello della scomparsa, il 27 febbraio del 2000, di una donna di 38 anni, Suzanne Blanch, moglie di Jacques Viguier, professore di diritto all'Università di Tolosa. Dopo le dichiarazioni di Olivier Durandet, che si presentò come l'amante di Suzanne, i sospetti portarono la polizia a interrogare suo marito. Un primo processo, nell'aprile 2009, lo portò all'assoluzione ma solo dopo l’appello egli poté liberarsi dall’incubo dell’accusa, nel marzo 2010. Dieci anni in cui Jacques Viguier visse un’esistenza travagliata, macchiata dalla infamante accusa, mai dimostrata come neanche la sua totale innocenza, non essendo mai stato trovato il corpo della signora né un valido movente che lo avrebbe potuto spingere al delitto.

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L’intero film tratta appunto del secondo processo, un vero legal thriller come se ne fanno solo negli USA, tanto che vien da chiedersi se esiste un filone francese e prettamente europeo, dato che è un genere che raramente vediamo sugli schermi prodotto da queste parti. E come conviene ogni volta, ovviamente il film non è solo la fredda cronaca giudiziaria e del dibattito in aula perché il regista ci racconta la vicenda viaggiando su tre piani differenti ma perfettamente attinenti e collimanti.

Il primo è certamente la vicenda misteriosa accaduta nella famiglia Viguier e cioè la sparizione improvvisa, senza preavviso, senza alcun messaggio, in circostanze inspiegabili, della moglie dell’imputato. Porte chiuse, finestre sbarrate, borsa personale rimasta intatta in casa, ma ciononostante la signora Suzanne sparì nel nulla più totale. Su accuse molto vaghe e su comportamenti susseguenti certamente ambigui da parte del marito Jacques, portarono questi ad essere il principale sospettato. In aula, i dubbi e le accuse vengono esposte e spiegate diversamente, a seconda della convenienza e dalla fonte, di accusa o di difesa.

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E qui siamo al secondo punto cardinale del film: il dibattito. Agitato, urlato, impetuoso, perfino melodrammatico un po’ come succede spesso, con un giudice troppo burocratico, un’accusa inflessibile e un comportamento a dir poco anomalo da parte della polizia, che, come fa spesso comodo, cercava di trovare in modo semplice il capro espiatorio nel marito sospettato. Un modo facile per chiudere il caso e dare il colpevole in pasto ai media e alla popolazione. Salta evidente sul banco dei testimoni la faciloneria del commissario incaricato delle indagini e del suo comportamento estremamente scorretto nei riguardi dei figli dei della presunta vittima. L’esimio avvocato difensore, un noto legale della regione, famoso per la sua enorme abilità, temuto persino dagli avversari e che non lesina rimbrotti e urlate lamentele anche verso il giudice, l’impetuoso avvocato Eric Dupond-Moretti combatte aspramente da par suo, aiutato dalla appassionata Nora (l’unico personaggio immaginario del film, tutti gli altri sono veramente esistiti), una chef di una brasserie che, amica di famiglia, presta tutto il suo tempo per studiare le carte del precedente processo e ascoltare centinaia di ore di intercettazioni telefoniche molto utili a capire come veramente andarono le cose dopo la sparizione di Suzanne. Un dibattito appassionante, dove l’atteso avvocato dà sfoggio di tutte le sue reali e potenziali capacità oratorie e difensive: un avvocato quasi imbattibile.

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Il terzo livello del film è appunto tutto di Nora, l’appassionata donna che si era prefisso il fine di dimostrare l’innocenza di Jacques e far tornare l’uomo in famiglia ad accudire i figli a cui si sente molto legata. Il film gira tutto intorno a lei, alla sua inarrendevole volontà di arrivare al traguardo dell’immane lavoro che si è sobbarcata. Notti insonni ad ascoltare i CD delle telefonate, a leggere documenti e a catalogare e abbinare nomi, vicende e dichiarazioni. Un gioco di puzzle enorme e di difficile composizione. È lei che chiama l’avvocato Dupond-Moretti a difendere l’accusato, è lei che si incarica del lavoro di base, è lei che assilla il legale fino ad arrivare al litigio e finanche alla molestia, è lei che non vive più, è lei che trascura il piccolo figlio e l’amante (tra l’altro il regista non affronta mai l’argomento del padre di quel bimbo), si fa licenziare, e, sovrappensiero, finisce investita da una macchina. Antoine Raimbault le regala ogni primissimo piano: ogni sospiro, lacrima, abbattimento, incoraggiamento sul viso di Nora è al centro dell’obiettivo, con lo sguardo sempre più stanco al centro dello schermo. Nora è l’anima della trama e se si arriva al termine ne è esausta anche lei, stremata, svuotata, ma felice e soddisfatta. Viene il dubbio che Nora rappresenti inconsciamente la passione dello stesso regista nei casi dubbi della giustizia francese da cui è tanto attratto.

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Antoine Raimbault riesce a tenere viva l’attenzione, come prevista da un film del genere, ma contemporaneamente dimostra anche qualche limite dovuto alla mancanza di esperienza e ogni tanto forse si rileva un calo di tensione o una eccessiva insistenza su particolari secondari, perfino un certo tono di melodrammaticità non propria di un dibattito giudiziario, ma rimedia con un buonissimo montaggio, in molti tratti decisivo. Risulta evidente la sua passione per questi argomenti, tanto da infilare nella sceneggiatura un riferimento cinefilo a proposito di un parallelismo tra questa storia e il repertorio di Alfred Hitchcock, giocando nella somiglianza tra il caso a due dei suoi film, La signora scompare e Il ladro, a seconda del punto divista, dell’accusa e della difesa.

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Brava Marina Foïs nel ruolo di Nora, perno centrale del film. il mattatore assoluto comunque resta il bravissimo Olivier Gourmet, amato attore perno fisso del cinema dei fratelli Dardenne, qui in un ruolo sorprendente per la sua carriera. Il suo avvocato è interpretato in maniera efficace e potente, al centro della scena nel tribunale, esperto e navigato interprete delle vicende giudiziarie che fa spettacolo a sé.

Tutto risolto? Forse. Il dubbio rimane, manca l’habeas corpus, ma l’importante per il regista era entrare nelle crepe per spiare la realtà mai veramente scoperta e lo fa sufficientemente bene, tanto da lasciarci perplessi e incuriositi, proprio come sarà andata nella realtà.



 
 
 

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