Viale del tramonto (1950)
- michemar

- 18 nov 2021
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 11 lug

Viale del tramonto
(Sunset Blvd.) USA 1950 dramma 1h50’
Regia: Billy Wilder
Sceneggiatura: Billy Wilder, Charles Brackett, D.M. Marshman Jr.
Fotografia: John F. Seitz
Montaggio: Arthur P. Schmidt
Musiche: Franz Waxman
Scenografia: Hans Dreier, John Meehan
Costumi: Edith Head
William Holden: Joe Gillis
Gloria Swanson: Norma Desmond
Erich von Stroheim: Max von Mayerling
Nancy Olson: Betty Schaefer
Fred Clark: Sheldrake (il produttore)
Lloyd Gough: Morino (agente di Gillis)
Jack Webb: Artie Green
Cecil B. DeMille: se stesso
Hedda Hopper: se stessa
Buster Keaton: se stesso
Anna Q. Nilsson: se stessa
H.B. Warner: se stesso
Ray Evans: se stesso
Jay Livingston: se stesso
TRAMA: L’ex stella del cinema muto, l’ormai dimenticata Norma Desmond, si nutre di gloriosi ricordi, disprezza l’era imperante del sonoro e vive isolata dal mondo nella sua enorme villa A Los Angeles. Joe Gillis, un giovane sceneggiatore al verde e pieno di debiti, la incontra per caso e accetta di scriverle un copione che, nelle loro intenzioni, dovrebbe segnare il trionfale ritorno alle scene dell’attrice. Ben presto Norma si innamora di lui e lo forza a diventare suo amante: la sua ossessione per Joe e per la celebrità da recuperare a tutti i costi cresce sempre più fino a crollare nella tragedia.
Voto 9

La voce dello sceneggiatore disoccupato Joe Gillis, mentre galleggia morto in una piscina, ricorda il suo rapporto sentimentale e professionale con l'ex diva del cinema muto Norma Desmond. L'attrice, una sorta di spettro che il tentativo di apparire giovane a 50 anni fa sembrare una centenaria, vive in una villa decadente in Sunset Boulevard, in uno scenario di follia e disperato isolamento. La vediamo mentre ufficia un funerale di mezzanotte per la sua scimmietta, o intenta a vagliare sceneggiature cui nessuno metterà più mano e a cullare il sogno di un impossibile ritorno sullo schermo nel ruolo di Salomè. Al suo servizio c'è il sinistro maggiordomo, un tempo il suo regista preferito (nella finzione e nella realtà) e tra l'altro suo primo marito.
Regista non solito alle ostentazioni visive, Billy Wilder è incoraggiato in questo caso a creare e citare composizioni di altri film come il covo del Fantasma dell'opera o il castello di Candalù di Quarto potere. Questa incursione del regista, acida ma nostalgica, nella casa stregata dell'industria del cinema si può rivedere all'infinito. Il film ispira sentimenti ambigui nei confronti della Norma che fu e il Joe che non è mai stato, con un uso quasi sadico di volti del cinema muto, ormai sorpassato, come quelli qui presenti di Buster Keaton, H.B. Warner e Anna Q. Nelson.

Una delle ironie di questo film è che l'industria cinematografica sembra portare a tutti a un certo grado di follia: come Cecile B. DeMille (che interpreta se stesso), che mentre ricorda gentilmente alla diva che il mercato del cinema è cambiato, conclude la scena facendo notare i suoi lucidi stivali da fantino e il suo datato incedere da palcoscenico. Pur afferrando l'occasione di avere un ultimo momento di gloria, Gloria Swanson e Eric von Stroheim – quest’ultimo la diresse nel disastroso La regina Kelly negli anni ’20 - capirono la crudeltà della visione del regista e il modo in cui egli avrebbe fatto di tutti loro dei mostri. È un film duro e cinico, che stritola la normale storia d'amore al suo interno: alla fine, Norma è tanto terrorizzata dal fatto che Joe stia scrivendo una sceneggiatura con una ragazza come Betty Schaefer, quanto che lui la possa lasciare per la rivale più giovane. Il personaggio della Swanson è vibrante nella sua follia – “Io sono sempre grande. È il cinema che è diventato piccolo.” - che culmina nel finale quando l'attrice, che sta per essere arrestata, si rivolge al cameraman e dice di essere pronta per il primo piano e quando Wilder allarga per inquadrarla in una lunga ripresa che enfatizza il suo isolamento e il suo delirio. Questo film apre la strada al regista per L'asso nella manica dell'anno seguente, opera che prende di mira la cattiva cultura dello sfruttamento mediatico del crimine, barbarie che resta viva anche e di più ai nostri giorni.

Interessante è il punto di vista di Gianni Amelio, sempre attento nelle sue recensioni:
La forza sempre intatta di questo capolavoro sta oltre la storia, bellissima, che vi si racconta: è nel rimando alla vita dei suoi interpreti. Non solo perché la Swanson e Stroheim si erano veramente lasciati vent'anni prima sulle ceneri di un film incompiuto, ma perché la loro parabola umana, anche nel degrado, aveva ancora un'aura di grandezza. In questo consisteva la nobiltà di Stroheim, regista e attore. Lui stesso, al di là del von, ne era consapevole. Wilder ricorda che durante il loro primo incontro, cercando di dire qualcosa che potesse fargli piacere, osservò: “Lo sa perché, signor Stroheim, non le fanno più dirigere un film? Perché lei è stato sempre in anticipo di dieci anni sul suo tempo.”. E Stroheim, gelido: “Di venti, mio caro, di venti.”.
A margine del cenno al “von”, va precisato che i due registi inizialmente si parlarono, probabilmente nella loro lingua madre (venivano da Vienna tutti e due) e Wilder confidò più tardi che il “von” esibito dal maestro era un'innocua civetteria: si faceva passare per nobile ma era nato (come Wilder, del resto) in un quartiere popolare, e l'accento lo tradiva. Non il portamento però, che gli permise di inalberare dentro e fuori dallo schermo un'autorevolezza ai limiti dell'arroganza.

Il film è certamente spietato, come lo sguardo del suo autore: cosa sono queste figure se non ombre, icone decadute, regge fatiscenti? Per lui la fabbrica dei sogni è come fosse già archeologia industriale, ma il suo colpo di genio sta nello scovare un barlume di vita anche in questo clima da melodramma noir, da ultimi giorni dell’impero, con una fotografia da penombra, con un’ambientazione di cui riusciamo a percepire odori di chiuso e di vecchio, persino di polvere depositata da tempo. Specchi magici come quelli della regina di Biancaneve che illudono il viso rugoso della diva che fu. Un melodramma horror dove la villa decadente è il mausoleo di un cinema che non c’è più. Di certo, ricorderemo per sempre e non ci stancheremo mai di guardare una straordinaria Gloria Swanson che è sempre se stessa, dentro e fuori dal set, e quel William Holden che calza a pennello il suo ruolo, come se lo avesse aspettato da tempo. Mentre Erich von Stroheim non si potrà mai dire che reciti: egli è quello che vediamo, è quello che nessuno avrebbe potuto sostituire. Ma la bellezza e la straordinarietà del film sono in tutti i particolari, dalla fotografia ai costumi, fino all’atmosfera che riescono a creare. Tra le 11 candidature, il film fu premiato con 3 Oscar per la sceneggiatura, per la sceneggiatura e arredamento e per la colonna sonora.

Riconoscimenti
1951 - Premio Oscar
Miglior sceneggiatura originale
Miglior scenografia
Miglior colonna sonora
Candidatura per il miglior film
Candidatura per il miglior regista
Candidatura per il miglior attore a William Holden
Candidatura per la miglior attrice a Gloria Swanson
Candidatura per il miglior attore non protagonista a Erich Von Stroheim
Candidatura per la miglior attrice non protagonista a Nancy Olson
Candidatura per la miglior fotografia
Candidatura per il miglior montaggio
1951 - Golden Globe
Miglior film drammatico
Migliore regista
Miglior attrice in un film drammatico a Gloria Swanson
Miglior colonna sonora
Candidatura per il miglior attore non protagonista a Erich Von Stroheim
Candidatura per la miglior sceneggiatura
Candidatura per la migliore fotografia






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