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Vizio di forma (2014)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 20 ott 2019
  • Tempo di lettura: 5 min

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Vizio di forma

(Inherent Vice) USA 2014, commedia, 2h28’


Regia: Paul Thomas Anderson

Soggetto: Thomas Pynchon (romanzo)

Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson

Fotografia: Robert Elswit

Montaggio: Leslie Jones

Musiche: Jonny Greenwood

Scenografia: David Crank, Ruth De Jong

Costumi: Mark Bridges


Joaquin Phoenix: Larry "Doc" Sportello

Josh Brolin: Christian "Bigfoot" Bjornsen

Owen Wilson: Coy Harlingen

Katherine Waterston: Shasta Fay Hepworth

Reese Witherspoon: Penny Kimball

Benicio del Toro: Sauncho Smilax

Martin Short: Rudy Blatnoyd

Jena Malone: Hope Harlingen

Joanna Newsom: Sortilège

Maya Rudolph: Petunia Leeway

Eric Roberts: Mickey Wolfmann

Serena Scott Thomas: Sloane Wolfmann

Sasha Pieterse: Japonica Fenway

Michael Kenneth Williams: Tariq Khalil

Jeannie Berlin: Zia Reet

Sam Jaeger: Agente Flatweed

Jillian Bell: Chlorinda

Steven Wiig: Portola Barkeep

Jefferson Mays: Dr. Threeply


TRAMA: Larry Doc Sportello è un detective privato della Los Angeles del 1969. Dipendente dalle droghe e dai metodi insoliti, Sportello viene contattato da un'ex amante per risolvere un interessante caso che, tra miriadi di azioni criminali, riguarda un'infedeltà coniugale ma anche le istituzioni mentali e un gruppo di poliziotti chiamati Bigfoot.


Voto 7,5


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Altro che vizio di forma, questo è un vizio intrinseco, come quello dei distributori italiani che modificano talune volte in modo significativo i tioli originale che hanno ben altro significato e importanza. Intrinseco è anche il notevole carico di contenuti che l’opera porta con sé, partendo già di suo dal romanzo omonimo di Thomas Pynchon, uno scrittore statunitense ritenuto uno dei maestri della letteratura “postmoderna”, concetto che porta come riferimento la crisi della modernità nelle società a capitalismo avanzato, dove è invadente l’economia e la finanza, la pubblicità, la televisione e i social. Perfino internet oggi c’è chi lo considera postmoderno. Per la storia presa in esame dobbiamo andare alla fine degli anni Sessanta e mentre tutto ciò in America è già realizzato, lo strambo e strafatto personaggio che domina la trama, Larry Sportello, per tutti “Doc”, se ne vuol stare alla larga, vivendo una esistenza tutta sua, come quando ogni volta che prova ad uscirne gli altri lo tirano per i piedi e lo rimettono in gioco, con la sua massima insofferenza.


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Doc Sportello di mestiere fa l’hippie suonato che ciondola sulla spiaggia californiana di Gordita Beach e l’investigatore privato a tempo perso, mentre non vuole essere di norma disturbato in questa intensa, inutile e vuota attività. Come un Drugo qualsiasi, ma più pessimista e minimale. Succede però che una sua ex, Shasta (Katherine Waterston, figlia di cotanto Sam), si rifà viva che gli chiede di aiutarlo a salvare il miliardario Mickey Wolfmann (Eric Roberts) con cui ha una relazione dal presunto complotto ordito ai suoi danni dalla moglie e dal suo amante. Non è che lui aspettasse con ansia che qualcuno lo rimettesse in piedi con un affair così complicato, però lentamente si rimette in moto e comincia a darsi da fare. Shasta è una donna che gli ha spezzato il cuore e non sa dirle di no. Il percorso che si rivela lo porta a confrontarsi con improbabili situazioni e soprattutto con se stesso. Un viaggio nel passato con le sue implicazioni storiche e sociali guidato dalla magistrale performance di Joaquin Phoenix. La sceneggiatura e la costruzione dei personaggi a opera di Anderson (che qui conferma ancora una volta il suo talento) permettono di perdersi nell’intrico di storie raccontate, lineari eppure oscure, impenetrabili, davvero inizialmente misteriose.


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Il romanzo originario è un giallo sulla società americana di fine anni 60, sul tramonto dell’era hippie e sul clima di paranoia dell’era Nixon ma essendo, secondo il regista “così ricco di materiale, così pirotecnico a livello di scrittura, che l’idea stessa di semplificarlo è una cosa complicata. Io volevo restringere il campo al tema del rimpianto, al vuoto che lasciano le persone e i ricordi che abbandoniamo. Certo, ci sono i 60 e tutto quello che rappresentano, ma di film su quella stagione se ne contano a decine, e sono tutti più o meno nostalgici proprio di quel periodo. Io invece cercavo un’altra forma di nostalgia, più privata e individuale.” Lui afferma che “La scelta di uno stile classico è motivata dal fatto che nella sceneggiatura ci sono molti dialoghi e diverse scene in cui due personaggi semplicemente parlano fra loro. A volte non c’è niente di più bello che stare a guardare un volto in primo piano, e io ho cercato semplicemente di guardare e ascoltare. Volevo essere chiaro, costruire inquadrature precise, trovare un mood ideale.”


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Paul Thomas Anderson (per noi suoi devoti semplicemente P.T.A.) non si ferma a ciò che aveva letto dal romanzo ed elabora alla sua maniera, anzi completa con interessantissimi elementi psicologici tutta la trama. Di certo non è un racconto facile, né molto lineare: c'è un fiume di personaggi, ognuno con le sue caratteristiche, ognuno con una storia vissuta molto particolare, storie che si intersecano e si allontanano. Sono gli anni '60, quelli dei figli dei fiori, quelli delle droghe leggere e pesanti, quelli della libertà hippie. L'importante è prestare attenzione, data la molteplicità delle storie. E ai tantissimi personaggi e tante situazioni, personaggi che sembra una passerella di persone ognuna delle quali ha delle caratteristiche spiccate: il poliziotto Bigfoot (Josh Brolin) che non molla un centimetro di distanza da Doc, le amicizie stravaganti, gli ambienti improbabili, che lui fa finta di considerare normali, prostitute orientali, navi con carichi vietati. Tariq Khalil, l'ex assassino e membro della Black Guerilla Family interpretato da Michael Kenneth Williams, che gli chiede di rintracciare un membro della fratellanza ariana nonché guardia del corpo di Mickey Wolfmann; Crocker Fenway, meglio conosciuto come il 'principe oscuro di Palos Verdes', un avvocato ed ex cliente di Doc che rappresenta la Golden Fang portato in scena da Martin Donovan; Japonica Fenway, la figlia di Crocker che una volta Doc ha salvato da un non meglio specificato 'orrore hippie', portata in scena da Sasha Pieterse; il dottor Rudy Blatnoyd, un dentista cocainomane e donnaiolo fortemente coinvolto nell'impero della misteriosa Golden Fang supportato da Martin Short; e Sortilège, l'ex dipendente di Doc che grazie ai suoi invisibili doni vede forze invisibili, risolve enigmi emotivi e comprende l'amore, portata sullo schermo da Joanna Newsom (il personaggio di Sortilège fa anche da narratore per l'intero film). Insomma, un festival variopinto e multiforme. Per guidare un plotone così numeroso e ben organizzato nel racconto ci voleva un regista più che valente e infatti.


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La fotografia di Robert Elswit e le musiche del fedele Jonny Greenwood hanno una parte preponderante nella bellezza dell’opera, diventano comprimarie importanti, come sempre succede nei film di P.T.A., ma senza Joaquin Phoenix sarebbe stato un altro film. Lui è semplicemente magnifico. Ricorda il regista che “Joaquin è incredibile, sa sempre come rispondere alle mie richieste. Per interpretare Doc Sportello, il detective protagonista, abbiamo discusso soprattutto del suo look da hippie e pochissimo invece sul personaggio.” Memorabile a mio parere resta la geniale ultima scena (luce in faccia a Doc, sguardo in macchina) che dà la giusta chiave di lettura del film. Che non è un capolavoro, non sposta l'asticella della storia del cinema, ma diverte confermando il talento di un autore unico, che secondo me non è giudicato e apprezzato come merita. Perché è un grande.



 
 
 

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