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Yara (2021

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 8 nov 2021
  • Tempo di lettura: 5 min

Yara

Italia 2021 dramma 1h36’


Regia: Marco Tullio Giordana

Sceneggiatura: Graziano Diana, Giacomo Martelli

Fotografia: Roberto Forza

Montaggio: Francesca Calvelli, Claudio Misantoni

Musiche: Andrea Farri

Scenografia: Roberto De Angelis

Costumi: Gemma Mascagni


Isabella Ragonese: Letizia Ruggeri

Alessio Boni: colonnello Vitale

Thomas Trabacchi: maresciallo Garro

Chiara Bono: Yara Gambirasio

Roberto Zibetti: Massimo Bossetti

Aiman Machhour: Mohamed Fikri

Mario Pirrello: Fulvio Gambirasio

Sandra Toffolatti: Maura Gambirasio

Miro Landoni: cancelliere Edoardo Carlini

Andrea Bruschi: dottor Prosperi

Augusto Zucchi: procuratore Sperone

Rodolfo Corsato: senatore Nigiotti

Gloria Bellicchi: moglie di Bossetti

Silvia Cohen: giudice

Elena Cotta: vedova Guerinoni

Priscilla Abate: Keba Gambirasio

Angela Ciaburri: dottoressa Anna Crivelli

Lorenzo Acquaviva: avv. Claudio Salvagni


TRAMA: Ricostruzione dell'omicidio della tredicenne Yara Gambirasio e della ricerca del suo assassino, denominato "Ignoto 1". In particolar modo, ci si concentra sulle indagini della PM Letizia Ruggeri. In collaborazione con polizia e carabinieri, la PM porta avanti una delle più discusse indagini di cronaca nera della storia italiana.


Voto 6-

Il mio nome vuol dire farfalla, dice Yara, adolescente di 13 anni che una sera di tardo autunno innevato, il 26 novembre 2010, non fece più ritorno a casa a Brembate di Sopra (BG) dopo essere uscita dal centro sportivo del paese dove si allenava al suo hobby preferito, la ginnastica ritmica. Appena fuori dalla palestra si persero le sue tracce e da quel momento non si seppe più nulla sino al 26 febbraio successivo quando un appassionato di aeromodellismo trovò il corpo della ragazzina ormai in stato avanzato di decomposizione, a Chignolo d’Isola, distante circa 10 chilometri dall’abitazione della famiglia Gambirasio. Abbandonata senza il colpo mortale, sanguinante per le ferite, non oltraggiata, lasciata morire di ipotermia. Lucida e sofferente, spaventata. Solo a quel punto gli inquirenti potettero iniziare una vera indagine, questa volta per omicidio, con la ovvia disperazione dei genitori della giovanissima vittima.

Non era facile prendere una direzione di investigazione, specialmente per la PM incaricata delle indagini, Letizia Ruggeri, una donna giovane ma molto tenace e grintosa, mai spaventata dall’arduo compito, dotata di intelligenza e pazienza, che con calma e riflessione cercava in tutte le direzioni, convinta che prima o poi qualcosa sarebbe saltato fuori: indagini sulle celle agganciate dai cellulari dei sospettabili, interrogatori, calcolo dei tempi di spostamento in quella maledetta sera. Però, buio totale, clima anche peggiorato dalle insistenze del procuratore del tribunale di Bergamo, pressato dai personaggi politici molto discutibili che puntavano l’attenzione (ahimè, che bassa politica) sui tanti immigrati che lavoravano nella zona, soprattutto nel cantiere edile vicino, ambiente che riguardava la professione del padre di Yara. La svolta decisiva fu trovare tracce di DNA non appartenente alla ragazza sugli indumenti intimi e da questo importante particolare iniziò una meticolosa e costosa indagine mediante uno screening di massa riguardante tutti gli abitanti della cittadina (provvedimento mai adottato in precedenza in Italia), facendo scoprire un insospettabile tradimento coniugale avvenuto molti anni prima ad opera di un ormai defunto: lo scopo, ora, era quindi trovare il figlio naturale di quell’uomo, operazione osteggiata dalla scandalizzata popolazione e dalle autorità che ritenevano inutile spendere tempo e tanto denaro pubblico per una indagine in cui credevano molto poco. Se si arrivò a risultati concreti il merito fu solo delle capacità anche caratteriali della PM Letizia Ruggeri, che dovette persino resistere alla tentazione di rimettere il mandato e trasferirsi, dopo che il procuratore Sperone aveva usato toni da sessista, insinuando che un PM uomo sarebbe stato più idoneo. Incredibile ma vero.

Il genere che Marco Tullio Giordana ha preferito è il legal drama, incentrando il film esclusivamente sulle indagini e sulle enormi difficoltà oggettive che la PM incontrava, oltre all’ostracismo dell’ambiente che non aveva mai creduto nelle sue convinzioni. Solo il comandante dei carabinieri Vitale era fortemente al suo fianco fino alla fine, unitamente al maresciallo Garro e al cancelliere che la incitava a non arrendersi. Il regista sceglie la strada di illustrare nei particolari tutta l’evoluzione della indagine scientifica, seguendo uno schema da lui più volte collaudato: didattico e didascalico, facendo funzionare a dovere e con chiarezza la spiegazione dell’indagine condotta attraverso il prelievo del DNA a tantissima gente, fino a giungere, nel momento più scoraggiante dell’intera vicenda, alla persona altamente sospettata per la perfetta coincidenza del profilo genetico con quello rilevato sul luogo del delitto, per accusarlo in base alle prove raccolte. Sì, prove, solo prove, perché il processo – va detto – si può classificare solo come “indiziario”. Mai il condannato Massimo Bossetti, figlio naturale di un autista di autobus e identificato come l’autore “Ignoto 1”, ha confessato il delitto, mai una testimonianza ha potuto dimostrare l’accusa, ma le prove scientifiche sono state evidenti e non smentite, anche se il suo avvocato difensore ha ricusato molte delle particolarità evidenziate in aula. È evidentemente un film a tesi, rafforzato dalla messa in evidenza dell’aspetto misogino e, come il maestro Hitchcock, lavora utilizzando il “metodo MacGuffin”, cioè il mezzo attraverso il quale si fornisce dinamicità a una trama, termine generalmente definito come “elemento che per i personaggi del film ha un'importanza cruciale, attorno al quale si crea enfasi e si svolge l'azione, ma che non possiede un vero significato per lo spettatore”.


Purtroppo, Marco Tullio Giordana porta con sé tutte le peculiarità del suo cinema, compreso quella di realizzare film con un’impronta troppo “televisiva” e poco da grande schermo, così come gli era successo in precedenza (vedi per esempio Nome di donna), tanto da dare l’idea di poter essere una fiction televisiva: trovo pessima l’idea di filmare un momento di tormento di Letizia Ruggeri quando un’allucinazione mentale le fa incontrare Yara in un corridoio del tribunale. Se poi si tiene conto che tra i produttori leggiamo la Taodue, società di produzione televisiva e cinematografica italiana, specializzata nella fiction televisiva, di proprietà del gruppo Mediaset, fa sì che il discorso risulti evidente. Però va dato anche atto come, sebbene tutti conosciamo gli avvenimenti, che tanta voce ebbero nei notiziari in quegli anni, il film si lasci seguire con molto interesse, merito dovuto principalmente alla solita e grande interpretazione della sempre brava Isabella Ragonese, che dà l’impressione di avere la medesima forza caratteriale della PM protagonista: ci mette impegno e cuore e ci fa partecipi della sua notevole recitazione. Peccato che la quasi totalità degli interpreti non abbia l’accento bergamasco, caratteristica che non bisognava trascurare ed invece, fatta eccezione per il bravo Alessio Boni (nato infatti a Sarnico) e per gli attori che interpretano i genitori della ragazzina, la quasi totalità parla con inflessione tutt’altro che bergamasca, ad iniziare dai personaggi più anziani e meno istruiti di quella provincia. Per realizzarlo, Giordana si è basato sulle carte dell'indagine, stando attendo alla sofferenza della famiglia: “Quando si tratta di storie vere ci vuole molta cautela. Intanto perché tocchi la sensibilità di persone che hanno sofferto e che continuano a soffrire. Preferisco basarmi sui documenti: carta canta, villan dorme.” “Di Isabella Ragonese apprezzo che coraggiosamente non abbia voluto fare la simpatica. Un personaggio contropelo, all’inizio sola contro tutti. Fa di testa sua, brusca, impaziente, va in giro in moto, si allena alla boxe. All’epoca sua figlia aveva 8 anni, era più piccola di Yara. Il film è l’ossessione del PM che vuole acciuffare il colpevole.”

Nulla di eccezionale, ma il film, ricostruendo con meticolosità i fatti, le indagini e il dibattito, si dimostra interessante, facendo luce sulle modalità per giungere alla condanna di Massimo Bossetti che continua tutt’oggi a dichiararsi estraneo alla vicenda. Tanto che, come indicano i titoli di coda:

Il 17 luglio 2017 la Corte d’Appello conferma la sentenza di colpevolezza.

Il 12 ottobre 2018 la Corte di Cassazione condanna Massimo Bossetti in via definitiva.

Malgrado le sentenze, Massimo Bossetti non ha mai smesso di proclamarsi innocente.

Novembre 2019. La difesa di Bossetti chiede al Tribunale di Bergamo di poter accedere a reperti biologici e indumenti per una nuova valutazione ma l’istanza viene respinta.

11 gennaio 2021. La Corte di Cassazione annulla la decisione e decide che la Corte d’Assise di Bergamo dovrà fissare udienza per consentire l’analisi dei reperti.

3 giugno 2021. La Corte d’Assise di Bergamo rigetta la richiesta dei difensori di Massimo Bossetti di avere accesso ai reperti.


 
 
 

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