Zabriskie Point (1970)
- michemar

- 28 feb 2021
- Tempo di lettura: 3 min

Zabriskie Point
USA 1970 dramma 1h53’
Regia: Michelangelo Antonioni
Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, Sam Shepard, Clare Peploe, Franco Rossetti
Fotografia: Alfio Contini
Montaggio: Franco Arcalli, Michelangelo Antonioni
Musiche: Pink Floyd, Kaleidoscope, Jerry García, John Fahey, Grateful Dead, The Rolling Stones, The Youngbloods
Scenografia: Dean Tavoularis
Costumi: Ray Summers
Mark Frechette: Mark
Daria Halprin: Daria
Paul Fix: proprietario del bar
G.D. Spradlin: socio dell'avvocato Lee
Bill Garaway: Morty
Kathleen Cleaver: Kathleen
Rod Taylor: l'avvocato Lee Allen
Trama: A Los Angeles, durante uno scontro tra la polizia e un gruppo di contestatori, viene ucciso un agente. Mark, un giovane ritenuto colpevole dell'omicidio, riesce a fuggire a bordo di un aereo da turismo rubato e atterra a Zabriskie Point, la zona più bassa e desolata del deserto californiano. Lì l’incontro con Daria. Nel paesaggio spettrale di Zabriskie Point i due giovani trascorrono lunghe ore d'amore; poi giunge il momento di separarsi. Mark fa ritorno a Los Angeles per restituire l'aereo rubato, ma trova ad accoglierlo la polizia che gli spara contro uccidendolo. Daria, che ha appreso per radio la notizia della morte di Mark, nella sua impotente disperazione non può far altro che immaginare la distruzione di tutti i simboli della spietata società nella quale è costretta a vivere.
Voto 7,5

A cavallo tra gli altri due film in lingua inglese di Michelangelo Antonioni (Blow-up e Professione: reporter), questo è il meno narrativo, quello in cui la storia si sviluppa parallela alla voglia di contestazione generazionale e alla visione onirica della distruzione dei simboli della modernità. Non fu un gran successo all’uscita in America, anzi il regista fu anche criticato per aver guardato con sguardo troppo europeo la società statunitense, ma lui rispose piccato che il film ha un valore poetico ed etico. Infatti. la scena che poi è diventata la sequenza culto, fortemente graffiata da una musica potente (i miei amatissimi Pink Floyd!) e da esplosioni deflagranti - allegoria della voglia di (auto)distruzione delle convenzioni retoriche e ipocrite della società moderna - è una espressione di vera poesia cinematografica, un sogno che si realizza, come un finale desiderato.

L'incontro fortuito di Mark con Daria, una giovane segretaria d'azienda che a bordo della sua auto si sta recando a Phoenix per un periodo di vacanza, si traduce ben presto in un'avventura sentimentale. Essi sono, nell’area più depressa di una terra felice come la California, le figure della fuga dalla realtà, sono l’incontro di due destini che viaggeranno in direzioni diverse ma che sul momento godranno della loro intesa, fisica e mentale. Dopo, che avvenga pure la distruzione di tutto, anche l’Apocalisse. Anzi, secondo l’interpretazione di Alberto Moravia, quel finale roboante rappresenta la "punizione" per la civiltà consumistica per aver permesso che Thanatos prevalesse su Eros. È comunque affascinante la voglia di Michelangelo Antonioni di mostrare nascondendo l’euforia della libertà di quei momenti desertici e la paranoia che un filosofo o sociologo può leggere in quel mondo, la certezza che alla fine scatti la repressione e il precipitare del caos, la libertà rispettosa degli altri e il facile commercio delle armi negli USA.

La sequenza – assieme a quella dell’esplosione del frigorifero contenente tutti gli oggetti simbolo della società del benessere - ripresa al ralenti da ben 17 macchine da presa, è da brividi e sembra non finire mai, con Careful With That Axe, Eugene dei Pink Floyd che squarcia l’anima dello spettatore e lo sguardo d’addio di Daria che deve ripartire e tornare alla realtà quotidiana. Come dopo aver vissuto una fuga dalla realtà, un viaggio nell’inconscio caldo come il sole, arso come la sabbia, bollente come l’eros.

La sceneggiatura, alquanto spiazzante, ha tante firme, mai immaginabili prima tutte assieme: dalla cultura cinematografica del regista ferrarese, fino al drammaturgo innovativo dallo stile moderno di quella dell’American West, Sam Shepard, passando da quel classico scrittore di cinema che è stato Tonino Guerra. Tra i produttori, Carlo Ponti.

Forse a causa di richiami mentali reconditi, chi scrive non riesce a tenere a distanza questo straniante film da uno dei miei preferiti in assoluto, Paris, Texas, di Wim Wenders, sicuramente per la similitudine del deserto e la rinuncia alle agiatezze moderne dei protagonisti, e anzi vedo entrambi come avi del nostro This Must Be the Place di Paolo Sorrentino.






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