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Giurato numero 2 (2024)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 21 ore fa
  • Tempo di lettura: 7 min

Giurato numero 2

Titolo originale

Juror #2

Produzione

USA 2024

Genere

legal thriller, dramma

Durata

1h54’

Regia: Clint Eastwood

Sceneggiatura: Jonathan A. Abrams

Fotografia: Yves Bélanger

Montaggio: David S. Cox, Joel Cox

Musiche: Mark Mancina

Scenografia: Ronald R. Reiss

Costumi: Deborah Hopper

 

Nicholas Hoult: Justin Kemp

Toni Collette: Faith Killebrew

J.K. Simmons: Harold

Chris Messina: Eric Resnick

Gabriel Basso: James Sythe

Zoey Deutch: Allison Crewson

Cedric Yarbrough: Marcus

Leslie Bibb: Denice Aldworth

Kiefer Sutherland: Larry Lasker

Amy Aquino: giudice Thelma Hollub

Adrienne C. Moore: Yolanda

Chikako Fukuyama: Keiko

Zele Avradopoulos: Irene

Drew Scheid: Brody

Francesca Eastwood: Kendall Carter

 

TRAMA: Justin Kemp, padre di famiglia, mentre presta servizio come giurato in un processo per omicidio, si ritrova alle prese con un serio dilemma morale.

 

VOTO 7,5


Clint torna. Torna lui e il suo modo leggendario di fare cinema. E torna in più di un “luogo” di cinema importante, posti fisici e mentali che hanno fatto la storia della Settima Arte.

Più che tornare, si reca nella sala e nell’ambiente di un grandissimo film, l’esordio giovanile di Sidney Lumet (La parola ai giurati, del 1957, rifatto molto bene da Nikita Mikhalkov con 12, nel 2007) e ne confeziona una rielaborazione quasi identica (lì c’era il giurato #8, qui è il #2) dove una sola persona ha “il” dubbio e cerca, riuscendo, a convincere tutti gli altri della mancanza della certezza della colpevolezza dell’imputato. Solo per una questione di onestà morale. Qui, quello che spinge Justin Kemp (Nicholas Hoult), un ex alcolizzato, è un altro motivo: sa che l’accusato non ha colpe e non lo può rivelare, perché sa che il crimine, l’omicidio stradale, lo ha commesso lui stesso. Ma parimenti comincia a cercare di convincere gli altri 11 a porsi delle domande critiche e a darsi una risposta diversa da quella che hanno frettolosamente – troppo – dato solo dopo qualche secondo di seduta. In entrambi i casi, essi hanno solo fretta e ritengono inutile perdere tempo quando invece hanno ben altri impegni: la casa, la famiglia, il lavoro, i figli, la scocciatura di essere lì al chiuso. E che caldo afoso soffrivano con Lumet! Facevano sudare noi spettatori.



È già in atto una prima critica alla giustizia in generale, la quale viene affidata per legge a 12 persone estratte a caso, competenti o meno, selezionate, e quindi eventualmente scartate, solo perché ritenute scomode dalla pubblica accusa (potrebbero assolvere) e dalla difesa (potrebbero essere facili giustizialisti). Gente comune, professionisti, colta, ignorante, preparata, disinteressata. In molti ci provano anche a scansare la responsabilità e provare ad essere esentati. Qui c’è perfino, come salta fuori ad un certo momento, un ex detective della polizia, Harold (J.K. Simmons), che – a dimostrazione di come spesso le indagini siano superficiali – va più vicino di tutti alla verità muovendosi, contra legem, per conto suo. Ma tutti non vedono l’ora di raggiungere l’unanimità e comunicarlo alla giudice Thelma Hollub (Amy Aquino). Se poi hanno sbagliato, pazienza, tanto quel giovanotto accusato, James Sythe (Gabriel Basso) non pare proprio uno stinco di santo. Sarà uno di meno in giro, una volta afflittogli l’ergastolo.



La parola ai giurati, ma sbrighiamoci, ché ho da fare. Si amministra così, la giustizia? C’è una frase nelle varie e tante conversazioni tra i giurati che traccia un bel solco: “A volte, la verità non è giustizia”, ma a mio parere è vero anche il contrario: una volta fatta giustizia, siamo sicuri che si è stabilita la verità? Di sentenze sbagliate e ingiuste è colma la storia. Ma hanno fretta. Per fortuna (ma per fortuna di chi? verrà quindi assolto, l’imputato?) tra loro c’è chi si sente in colpa e rallenta la decisione, s’impegna per salvare e inserire il dubbio, che deve diventare il seme dell’incertezza. Il problema di Justin è che non può rivelare perché parla in quel modo e gli altri se ne accorgono, motivo per cui gli fanno delle domande insinuanti. Il peso della colpa quanto è ingombrante?



Mors tua, vita mea, diceva la mitica locuzione dei latini, e questa situazione la rispecchia in pieno. Se il protagonista ammette di essere stato lui ad investire la vittima viene accusato di omicidio stradale, se mantiene il segreto viene condannata un’altra persona e lui si salva. E qui siamo davanti al dilemma morale che assilla e stravolge la vita tranquilla del protagonista, già in ansia per l’imminente nascita della bimba della gestante moglie Allison (Zoey Deutch), che può chiamarlo da un momento all’altro. È l’unico che ha davvero premura di finire ma ha bisogno di far riflettere tutti gli altri. Il suo problema morale è una delle questioni principali del film, se non forse il più importante dubbio del film di Clint. È il tema dominante. Ammettere e salvare un innocente o piombare come una tomba il segreto nel profondo della sua anima. Ma la crisi morale è anche quella della Giustizia in generale, che con il verdetto che viene emanato in ogni tribunale sigilla indagini, testimonianze, pena o assoluzione.



Un altro aspetto dei rientri di Clint riguarda l’ambientazione in uno dei luoghi che l’hanno visto artefice di un altro suo film importate: Savannah, in Georgia, la città in cui si svolge la trama oscura di Mezzanotte nel giardino del bene e del male, dove la mezzanotte, considerata la transizione tra il giorno e la notte, è il momento della lotta tra il Bene e il Male e il giardino del titolo rappresenta il luogo in cui queste forze opposte si intrecciano. Ci ritroviamo nel cuore dell’America sudorientale, nella sua pancia, uno stato schiavista che durante la Guerra Civile aveva una grande popolazione di afroamericani ridotti in schiavitù per lavorare nelle piantagioni. Clint ci scodella anche la questione segregazionista mediante uno dei personaggi tra i 12, Marcus (Cedric Yarbrough), che non ha remore a far emergere il razzismo che comunque latita sempre nelle vicende americane.



È rientro anche quello che nei tribunali, tante volte presente nei film clintiani, sia perché ha tante volte interpretato il poliziotto che acchiappava i criminali, ammesso che non li uccidesse prima, come era suo solito. Lo è anche perché un altro bel film, erroneamente considerato minore, Fino a prova contraria, dal titolo originale ben più efficace, True Crime, è parimenti un legal drama anche se si svolge quasi nulla in un’aula, ma tratta ancora di un atto di giustizia sommaria inflitta da una corte e da un governatore alquanto distratti e poco interessati alla vicenda umana di un povero giovane di colore vicino alla pena capitale per un delitto commesso in circostanze per nulla chiarite. Una vicenda parallela, molto simile, in quel caso a maggior ragione per il colore della pelle dell’imputato.



Ma non è tutto qui, anzi emerge un altro aspetto importante del film, credo poco fatto notare dalla critica, quello che si nota con tutta evidenza: la voglia di far carriera della Pubblica Accusa, che negli USA è rappresentata dalla figura del Procuratore Distrettuale. Qui è l’avvocato Faith Killebrew (Toni Colette) che funge da accusa e non vede l’ora di concludere felicemente per lei il dibattito e mettere punti al suo attivo per raggiungere la carica tanto agognata. In America, si fa la carriera anche sulla pelle dei condannati, colpevoli o meno. L’importante è vincere le cause e trionfare con le medaglie delle condanne. È una delle caratteristiche della Giustizia di cui si dibatte ultimamente anche in Italia con la tanto discussa “separazione delle carriere”. Con le dovute differenze legislative dei due Stati.



In ogni dibattito di tribunale domina la presa di coscienza di chi deve decidere, partendo dalle giurie popolari e arrivando alla sentenza e alle relative motivazioni che il giudice scrive. Ogni passo è determinante per stabilire la verità, ammesso che sia quella reale. Tribunali e Giustizia, principi morali, onestà intellettuale di tutte le componenti di un processo giusto. Ma di errori è piena la storia dell’uomo. L’ultima inquadratura è raggelante, perché, a sentenza emessa, i dubbi assalgono chi non ne aveva e chi si sente fuori dal pericolo non può stare tranquillo: Faith Killebrew bussa alla porta di Justin Kemp, non si parlano e si guardano. Lei ha l’espressione di chi vuole approfondire, lui ha lo sguardo sbarrato e sorpreso. Si chiude qui, senza risposta, con un finale che non ci si aspetta, perché tutto pareva concluso. Non ha importanza. I fatti e le emozioni dei personaggi sono stati esposti. Traiamo le conclusioni, quelle morali e legali.



È un film tecnicamente girato molto bene: la regia di Clint è esemplare, asciutta quasi essenziale, da manuale. Ci porta dentro con tutte le emozioni che un buon film ci può dare e ciò vuol dire che il regista ha compiuto benissimo il suo lavoro. La musica di Mark Mancina sembra la dolce armonia delicata e penetrante dei film di Eastwood, pur se è stato solo la seconda volta con cui ha collaborato (dopo Cry Macho – Ritorno a casa), la bella fotografia è di Yves Bélanger, invece un habitué del regista. Qualche critica va fatta però alla sceneggiatura dell’esordiente Jonathan A. Abrams, troppo semplicistica e di poca profondità anche se per lunghi tratti didascalica. Di livello qualitativo non eccelso, diciamo per eufemismo, nulla di eclatante: con una scrittura migliore avremmo visto un film migliore, senza dubbio.



Se tante cose sono andate molto bene, a cominciare dalle emozioni che Clint ha saputo comunicare, non tutto è filato liscio con il cast. Nicholas Hoult non è stato all’altezza della situazione, troppo monotono, poco coinvolgente. Sono certo che con un attore più bravo o forse solo più adatto avremmo visto un altro film, avremmo vissuto altre apprensioni, altre sofferenze intime, da comunicare al pubblico. Invece così non è stato. Toni Colette – che incredibilmente era la mamma di Hoult nel simpaticissimo About a Boy – Un ragazzo, di Paul e Chris Weitz – ha saputo indossare i panni della non più giovane avvocata di successo pronta al salto di carriera. Nelle sue corde ha la giusta dose di acidità per saper essere antipatica, grintosa, volitiva, un carro armato che però subisce l’ombra del dubbio. J.K. Simmons sa sempre come prendere i suoi ruoli e come al solito è ineccepibile. Chris Messina adempie al suo compito con diligenza.



Però basta parlare di opera testamentaria: lo scrivono ad ogni film del nostro buon Clint, da diversi anni. Lasciatelo lavorare finché riesce. Il suo testamento sarà sempre il prossimo, perché è dai tempi del suo Walt Kowalski che lo dicono, ma lui, lo dice anche questo bel film, cartina di tornasole dell’America di oggi e delle sue contraddizioni, è ancora in grado di dirigere ottimi film.

Alla prossima, grande Clint!



 
 
 

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