Houria - La voce della libertà (2022)
- michemar

- 28 mar
- Tempo di lettura: 6 min

Houria - La voce della libertà
(Houria) Francia/Belgio 2022 dramma 1h44’
Regia: Mounia Meddour
Sceneggiatura: Mounia Meddour
Fotografia: Léo Lefèvre
Montaggio: Damien Keyeux
Musiche: Maxence Dussère, Yasmine Meddour
Scenografia: Chloé Cambournac
Costumi: Emmanuelle Youchnovski
Lyna Khoudri: Houria
Rachida Brakni: Sabrina, madre di Houria
Amira Hilda Douaouda: Sonia
Meriem Medjkane: Amel
Nadia Kaci: Halima
Zahra Doumandji: Sana
Sarah Hamdi: Lamia
Sarah Guendouz: Nacéra
Amina Benghernaout: Lila
Marwan Fares: Ali
Ali Damiche: Ahmed
Francis Nijim: Ashraf
TRAMA: Houria è una giovane ballerina algerina di grande talento che per pagarsi da vivere di giorno fa le pulizie e di notte partecipa a un giro di scommesse clandestine. Una notte, a causa di una grande vincita, viene aggredita e finisce in ospedale. Questo evento traumatico ha infranto i suoi sogni di diventare una ballerina. Houria deve quindi accettare il suo nuovo corpo e trovare un significato nella sua vita.
VOTO 6

Della stessa Mounia Meddour conosciamo Non conosci Papicha, sempre con Lyna Khoudri come protagonista, e risulta evidente come la regista sia interessata a parlare dei problemi delle giovani algerine che cercano di realizzare il sogno delle loro passioni: lì Nedjma amerebbe diventare stilista, qui Houria è una giovane ballerina di talento di Algeri che vede crollare il mondo quando, aggredita e danneggiata, è costretta a fare i conti con il suo nuovo corpo, anche entrando a far parte di una comunità di sopravvissute come lei. La sua più grande sfida sarà allora trovare un modo di riappropriarsi della danza: l’evento traumatico ha infranto i suoi sogni ed ora deve accettare il suo nuovo corpo e trovare un significato nella sua vita. I due film si possono senz’altro definirli un dittico perché raccontano di un paese infragilito e traumatizzato dove le donne, nella loro limitata libertà, cercano l’affermazione nella società. È ancora una storia che punta sulla forza emancipatrice delle giovani per superare la violenza endemica di un sistema patriarcale in cui Houria diventa il simbolo la cui espressione nello spazio pubblico viene soffocata.


Per forza di cose, ci sarà stato un lavoro di preparazione molto lungo, proprio perché si passa da diversi tipi di ballo, dalla danza classica, che tutti conoscono molto rigida e codificata, molto accademica, per poi allargare a uno stile che diventa un simbolo di liberazione e emancipazione, liberando il corpo della protagonista, malgrado l’incidente, per mantenere la sua libertà, e quindi anche la seguente lingua dei segni, indispensabile dopo il mutismo post traumatico, si esprime come una sorta di danza fatta con i gesti. Le armi delle donne combattenti, che comunque Mounia Meddour mette in scena nel suo cinema, sono arti e pratiche considerate tradizionalmente femminili, delicate, decorative, che per le protagoniste diventano invece strumento di guerra per farsi valere, per reinventarsi e per non farsi schiacciare.

Nel precedente film si raccontava la ribellione al patriarcato di una giovane donna algerina negli anni ‘90, gli anni della sporca guerra innescata dal colpo di stato del 1992 che aveva contrapposto il governo militare e gruppi islamisti, in un conflitto detto anche il “decennio nero” che fece oltre 200 mila vittime nel paese e soffocato nel sangue ogni forma di protesta, ora, nel secondo lavoro di fiction della regista franco-algerina, si sposta invece nel presente, mantenendo però un legame con quegli anni di sangue: la protagonista Houria (il cui nome in arabo significa proprio “libertà”) è un ballerina che di giorno lavora come donna delle pulizie e di notte, per arrotondare, scommette sui combattimenti di animali, ma che proprio a causa di una grossa vincita viene aggredita da un ex militante islamista, ora a piede libero grazie all’amnistia, che aveva scommesso sul perdente. Da quel momento la vita della giovane, oramai muta e con una caviglia spezzata, è completamente stravolta: è l’incontro con altre donne ferite e mute a darle la forza di lottare per riconquistare se stessa e l’energia per usare la sua amata danza come strumento di condivisione e di sorellanza.


Riflettendo ancora sui due film, nel primo la sartoria era un atto di resistenza in cui la protagonista usava i vestiti non per coprire ma per liberare il corpo delle donne, confezionando abiti femminili al posto del velo che erano obbligate a indossare; in questo, invece, in un momento in cui la società patriarcale algerina cerca di tenere le donne chiuse in casa, senza possibilità di esprimersi, la danza giunge come un elemento liberatorio. Danzare, in una società patriarcale come quella che vige in Algeria, è qualcosa di non tollerato perché significa esprimersi, liberarsi, emanciparsi, anche provare piacere. È una forma di realizzazione per le donne. E in questa società la danza è in larga parte proibita, non si può ballare fuori ma solo al chiuso, e quasi solo in occasione di cerimonie. A questo punto, utilizzare il corpo come mezzo di espressione e l’arte della danza diventano uno strumento per rivendicare questo spazio di creatività.

Le scene dei combattimenti tra arieti mi hanno incuriosito e ho cercato notizie in merito. È un’usanza algerina che si svolge tutte le settimane, ci sono perfino finali e semifinali come fosse uno sport ad eliminazione come i tornei di tennis. Ci sono campionati nazionali ma anche Algeria contro Marocco e così via. È molto radicato nella cultura locale, un po’ come i combattimenti di galli, è tecnicamente proibito ma tollerato, e ci sono anche parecchi bambini nonostante sia tutt’altro che pedagogico. Agli arieti vengono dati nomi, come si vede nel film, di personaggi famosi e vincenti come Obama o Putin, a volte sconvolgenti, come Bin Laden; più vincono più hanno un nome di grandi personalità. Salta evidente come queste scene controbilancino l’universo femminile, che è soprattutto luminoso, mentre questo è notturno, mentre le donne sono molto aeree e leggere, i ragazzi che scommettono sugli animali sono più virili, si muovono sul terreno urbano, ed è per questo che viene mostrato, immagino, la diversità dei due universi, maschile e femminile.


Si alternano sequenze di felicità e gioia nei momenti in cui le ragazze stano assieme in armonia e quando si allenano e ballano, nonostante i severi rimproveri, necessari, dell’insegnante; e scene di dramma e di commozione quando gli uomini mettono paura, abusano della loro forza fisica e soprattutto nel momento in cui Houria deve fare i conti con la morte dell’amica più intima, che sperava di attraversare il Mediterraneo per una vita migliore in Spagna. Anche quando sono riunite e fanno attività di vario tipo, le tante donne che hanno perso la voce o son nate mute si alternano ora felici e ora tristi, specialmente quando affrontano i comprensibili cedimenti di morale, di solitudine, della mancanza delle famiglie, degli attimi di smarrimento, che la regista filma con trasporto e poesia, con movimenti avvolgenti e primi piani per svelarci le turbolenze intime delle loro sofferenze. Donne che, al solo sentire che Houria insegnerà loro a danzare, gioiscono con trasporto come se sia stato detto loro che d’ora in poi avranno la libertà di fare tutto ciò che prima era vietato.

Un film di denuncia e di dolore, ma anche rivolto alla speranza della rinascita, quindi di diventare se stesse, eroine di perseveranza, di resilienza, di raggiungimento. Quindi di libertà e indipendenza, di Houria e delle altre. Magari al ritmo di Felicità (Al Bano & Romina) e Gloria (Umberto Tozzi). La mdp sempre vicina, che gira attorno ai corpi, sempre in movimento, devotamente rivolta a trasmetterci ogni minima sensazione della mente e del cuore delle tante donne che riempiono il film: questo è il lavoro che Mounia Meddour ha voluto compiere per parlarci della sua Algeria e delle algerine, di sé e di quelle come lei.

Encomiabili per entusiasmo e impegno le tante attrici che si danno da fare sullo schermo, a capo delle quali c’è ovviamente Lyna Khoudri, la fidata della regista. Che ci mette tanto cuore e corpo, ma mi è parsa un po’ rigida, come le rilevo spesso. Secondo me, per affermarsi completamente, deve essere più duttile ed espressiva, più passionale. È come se non sia ancora maturata, nonostante abbia superato i 30, che non dimostra con quel viso d’angelo fanciullo, ma ammirevole almeno per il fatto di aver lavorato parecchio e sodo per un anno per imparare ad andare sulle punte, apprendere la lingua dei segni, imparare le coreografie.
Intenti nobilissimi, operazione lodevole, risultato sufficiente, ma non vado oltre perché non mi ha coinvolto emotivamente.






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