Jay Kelly (2025)
- michemar

- 2 ore fa
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Jay Kelly
USA, UK, Italia 2025 commedia drammatica 2h12’
Regia: Noah Baumbach
Sceneggiatura: Noah Baumbach, Emily Mortimer
Fotografia: Linus Sandgren
Montaggio: Valerio Bonelli, Rachel Durance
Musiche: Nicholas Britell
Scenografia: Mark Tildesley
Costumi: Jacqueline Durran
George Clooney: Jay Kelly
Adam Sandler: Ron Sukenick
Laura Dern: Liz
Billy Crudup: Timothy
Riley Keough: Jessica Kelly
Grace Edwards: Daisy Kelly
Stacy Keach: padre di Jay
Thaddea Graham: Meg
Jim Broadbent: Peter Schneider
Patrick Wilson: Ben Alcock
Eve Hewson: Daphne
Greta Gerwig: Lois Sukenick
Josh Hamilton: Carter
Lenny Henry: Larry
Emily Mortimer: Candy
Nicôle Lecky: Krista
Thaddea Graham: Meg
Isla Fisher: moglie di Ben
Jamie Demetriou: Clive
Louis Partridge: Timothy giovane
Charlie Rowe: Jay giovane
Patsy Ferran: Brenda
Alba Rohrwacher: Alba
Giovanni Esposito: Antonio
Galatea Ranzi: Camilla
TRAMA: Jay Kelly è una star di Hollywood, un famoso attore di blockbuster mainstream costantemente accompagnato dal devoto manager Ron in un viaggio attraverso l’Europa sulle tracce della figlia più piccola dell’ansioso – e assente quanto celebre – padre. Lungo il percorso, i due uomini si trovano costretti ad affrontare le scelte fatte e a riflettere sui legami con le persone a loro più care
VOTO 6,5

Il tono da commedia che predomina le opere di Noah Baumbach, fatta qualche rara eccezione come il molto drammatico Storia di un matrimonio, è costantemente intriso di mestizia come se nelle sue storie ci sia sempre qualche fatto collaterale che rovina l’esistenza tranquilla dei suoi personaggi alla ricerca dell’affermazione nel mondo e nella vita sociale e professionale. A volte un protagonista femminile (la consorte Greta Gerwig: Frances Ha, esempio paradigmatico), altre volte maschile, ma sempre alla ricerca di se stessi e di un posto nella società metropolitana che corre e cambia. Lui cerca gli attori adatti alle sue sceneggiature e li dirige. Qui, chissà, è come se il percorso creativo abbia subito un capovolgimento e sembra che la sceneggiatura sia stata cucita addosso al buon George Clooney, tanto da parere una sua futura biografia, o, meglio ancora, la perfetta fotografia di tante star hollywoodiane che hanno trascorso l’intera esistenza a recitare su tutti i set possibili, sposandosi, tradendo, divorziando e risposandosi, ma sempre trascurando le cose più importanti e specialmente la prole, cresciuta senza un padre.
Queste particolarità sono tutte dentro il film e rese drammatiche nella riflessione con lo sguardo all’indietro non solo dell’attore famoso in tutto il pianeta ma anche per i due che ne curano l’immagine e la carriera: Jay Kelly è in forte crisi non tanto artistica quanto psicologica, ma anche Ron (Adam Sandler) e Liz (Laura Dern) non se la passano bene, avendo passato la loro vita al seguito del divo ed ora sono stanchi. Ad iniziare dalla donna, che, nel bel mezzo del viaggio in Italia, scende dal treno e rinuncia al lavoro, esausta e per nulla ripagata. L’altro, mollato poco prima dall’altro suo cliente, Ben (Patrick Wilson), sta anch’egli ripensando al tempo che non ha potuto dedicare alla moglie Lois (Greta Gerwig) e ai suoi figli, con cui parla più a telefono che di persona.
Un esame di coscienza che dura due ore, tra ripensamenti, ricordi, pentimenti, tentativi di recupero delle due figlie, Jessica (Riley Keough) e Daisy (Grace Edwards) - che ormai hanno rinunciato ad avere un padre - soprattutto la prima che sta superando il problema con l’ausilio di uno psicologo e gli ha scritto una lettera commovente di dispiacere per l’assenza, non avendo la forza di dirglielo di persona. Jay, invece, ora che è troppo tardi, cerca di recuperarle, in special modo la giovanissima Daisy, che invece di seguirlo in Toscana dove lui riceverà un premio-tributo, preferisce andare in vacanza con il fidanzatino a Parigi, rinunciando anche ad iscriversi al college come sognava il padre. Jay è in crisi profonda e si rende conto che ha sprecato tutta l’esistenza. Da qui la sua decisione: rifiuta, facendo disperare il fedele Ron, il prossimo set, accetta, dopo averlo declinato, il premio in Toscana e stabilisce, spiazzando l’intero codazzo organizzativo che lo segue dappertutto, di partire col suo aereo per Parigi e poi prendere un treno (!), in seconda classe (!) e viaggiare per mezza Italia e giungere nella campagna della Val d’Orcia per partecipare alla cerimonia. Perdendo strada facendo affetti, parenti, amici, Liz e forse Ron.


Due ore sono troppe per un film di questo genere e tenore e la colpa è di alcune (troppe) scene che si protraggono e che si potevano abbreviare, ma la stanchezza che può sopraggiungere non deve distrarci e non farci riflettere che il film è sincero in maniera disarmante. È l’istantanea di un mondo, quello dello star system hollywoodiano, che si autocelebra in continuazione (le serate dei Golden e degli Oscar, tra i mille sorrisi e risate) fatto da personaggi (personaggi loro stessi) che recitano un ruolo anche fuori dal set. Recitano due volte, come dice il film: nella trama che interpretano e nella vita quando devono impersonare se stessi per il pubblico acclamante. Come succede infatti a Jay Kelly, riconosciuto e assalito dai passeggeri del treno, donne anziane e giovani che non credono ai propri occhi vedendolo tra loro.
Noah Baumbach dipinge il ritratto del loro mondo con la consueta malinconia che abita i suoi film, ed il film stesso è di una mestizia pervadente, a cominciare dal viso triste e fintamente sorridente di Jay Kelly, che all’inizio della trama si azzuffa con il dimenticato compagno di stanza Timothy (Billy Crudup) per la vecchia storia di avergli soffiato (ma per semplice bravura) il ruolo del debutto: lui è diventato divo del cinema, l’altro psicoterapeuta pediatrico. Numerose sono le pause della narrazione del presente perché il protagonista vaga con la memoria rivivendo le tante vicende importanti della carriera: sul set con l’attrice con cui tradiva la moglie, il provino maledetto causa del rancore di Tim, i giochi delle figlie che si esibivano per lui ma il borsone della partenza era già a tracolla, e via dicendo. A cosa è servito tutto il successo se si è perso il meglio per strada? Durante la premiazione dell’”Albero delle fragole” (attenti al nome!) rivede il filmato montato dei tanti successi (sono proprio i migliori film di George Clooney: è proprio un film su di lui?) e si commuove. E si chiede, come se fosse ancora una volta su un set, se la “scena” della sua vita si possa rigirare. Come un ciak qualsiasi. Mi piace ricordare che nel meraviglioso Jesus Christ Superstar (altra star), alla fine della tragedia di Cristo, i discepoli si chiedono, smarriti e tristi, cantando: “Could We Start Again, Please?”. Eh, magari, si potesse ogni volta che sbagliamo!


Un film come questo, fatto da una miriade di personaggi, ampiamente corale che tutti non si possono elencare, è costruito su molti dialoghi. Tanti dialoghi, e ciò porta, viste le varie considerazioni che si dicono tra loro, ad un’opera che chiaramente si rifà ai grandi autori del grande cinema. I riferimenti a Ingmar Bergman (i rapporti con le proprie donne, i figli, l’Albero “delle fragole”, le scusanti degli errori che non stanno in piedi) e a Woody Allen sono lampanti. Discorsi ed elucubrazioni esistenziali che si ammantano su tutte le persone di mezza età, come Jay e Ron, i quali si girano per osservare le orme lasciate e si accorgono che hanno tralasciato i sentimenti di maggior valore nella vita di un uomo, che, una volta persi, non si riesce a recuperare.
Lo studio che svolge Noah Baumbach è volenteroso ma fiacco, non efficace. Ed è tanto malinconico, come il sorriso spento e finto di George Clooney, che continua a guardarsi nello specchio del bagno del treno di seconda classe (in cui, appena entrato in Italia si guasta l’aria condizionata, ci conoscono bene all’estero!) e ripete Jay… Jay… Gary Cooper… Cary Grant… Jay… Jay Kelly… È un personaggio pentitosi troppo tardi delle sue manchevolezze, del proprio egocentrismo, della scarsa attenzione verso gli altri, ma non si è ancora accorto di aver sfruttato ed esaurito le forze anche dei suoi più vicini collaboratori. Ora, Liz è fuggita da quel lavoro tossico e Ron è talmente assuefatto al ruolo di maggiordomo più che di manager che non riesce a staccarsi, ma quando, a migliaia di chilometri dalla famiglia, si accorge che la sua non è più vita, decide, con molti tentennamenti, di prendere un taxi e tentare di partire, inseguito a piedi dal bolso protetto. E l’avrà ancora vinta Jay, che lo convince perlomeno a restare per la cerimonia, in cui entrambi guardano il filmato e si commuovono, pur se per differenti motivi, ma anche per uno medesimo: il tempo sprecato e non dedicato alla famiglia. Ci può essere una richiesta così malinconica come “Posso rifarla? Vorrei farne un’altra!”? Non credo.
Tra Bergman e Allen, Noah Baumbach trova un compromesso timido, incerto come in fondo sono stati spesso i personaggi dei suoi successi e dà l’impressione di celebrare un attore come George Clooney che è sì un divo riconosciuto ma che non ha mai avuto il vero acuto del grande interprete. Forse a causa di non aver ancora ricevuto il copione giusto e il ruolo della vita: simpatico in tanti film in cui però si ripete, diciamo che clooneggia ripetendosi con abiti differenti. Personalmente l’ho giudicato eccellente in quelli seri. Osservandolo in Syriana e Michael Clayton se ne intuiscono le ottime capacità e se poi diamo un’occhiata ad alcune sue regie come Confessioni di una mente pericolosa, Le idi di marzo e soprattutto Good Night, and Good Luck, se ne ricava che ha idee chiare in politica e nel cinema impegnato. Qui fa un ruolo che gli è congeniale ma non porta nulla di nuovo, è solo perfetto per lui. E sarebbe un errore ritenerlo il protagonista assoluto di questo film, perché Adam Sandler, comunemente accettato come un comico molto brillante, sicuramente più adatto all’umorismo americano, è un attore drammatico come pochi. Basterebbe rivedere un film dimenticato che ha il potere di commuovermi mille volte su mille: Reign Over Me, regia di Mike Binder, del 2007. Un film che ritengo bellissimo dove fa sfoggio di predisposizione drammatica di alto livello. Oppure il formidabile Diamanti grezzi, dove esibisce tutto il suo talento E ci aveva visto giusto anche il mio amato P.T. Anderson, nello stralunato e bellissimo Ubriaco d’amore. Sandler si erge a co-protagonista con tutti i meriti che ciò comporta, e forse ha il ruolo più incisivo di tutti, quello meglio sfaccettato dall’autore. Due attori, quindi, che duettano in ottima sintonia e disegnano due personaggi che non bisognava sbagliare e ci riescono. Buona accoppiata.


Il numerosissimo cast restante è variopinto e in tanti hanno sì e no solo qualche minuto o secondi a disposizione, come per esempio Emily Mortimer che qui è co-sceneggiatrice e produttrice. E se si osserva bene i tanti attori, si nota che proprio parlando del tempo che passa li vediamo non più giovani: rughe e visi appesantiti. Chissà se qualcuno di loro si è ritrovato e riflettere come Jay Kelly.
Riconoscimenti
Golden Globe 2026
Candidatura miglior attore protagonista in commedia/musicale George Clooney
Candidatura miglior attore non protagonista Adam Sandler























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