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We Live in Time - Tutto il tempo che abbiamo (2024)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 1 giorno fa
  • Tempo di lettura: 6 min

We Live in Time - Tutto il tempo che abbiamo

(We Live in Time) UK, Francia 2024 dramma 1h48’

 

Regia: John Crowley

Sceneggiatura: Nick Payne

Fotografia: Stuart Bentley

Montaggio: Justine Wright

Musiche: Bryce Dessner

Scenografia: Alice Normington

Costumi: Liza Bracey

 

Andrew Garfield: Tobias Durand

Florence Pugh: Almut Brühl

Grace Delaney: Ella

Lee Braithwaite: Jade

Aoife Hinds: Skye

Adam James: Simon Maxon

Douglas Hodge: Reginald Durand

Amy Morgan: Leah

Niamh Cusack: Sylvia

Lucy Briers: dott.ssa Kerri Weaver

Robert Boulter: dott. Hernandez

Nikhil Parmar: Sanjay

Kerry Godliman: Jane

Heather Craney: Buffy Jones

Marama Corlett: Adrienne Duval

 

TRAMA: Grazie ad un incontro inaspettato, le vite di Almut e Tobias cambiano per sempre. Sfidando i limiti del tempo, i due imparano a custodire ogni momento della loro commovente storia d’amore.

 

VOTO 6,5



Che John Crowley ami prediligere storie più o meno complicate che raccontano relazioni affettive, sia di coppia che di altra natura, lo si intuisce leggendo i titoli che hanno attirato l’attenzione del pubblico: Closed Circuit, Il cardellino, Brooklyn. Stavolta punta decisamente su un racconto drammatico e commovente facendo risaltare l’importanza del tempo che tutti noi abbiamo a disposizione per coltivare un amore, specialmente se le ore e i giorni passano troppo velocemente in presenza di una malattia che pareva sconfitta, che pone un traguardo finale sin troppo vicino. Di storie d’amore destinate a finire a causa di una patologia incurabile è pieno il cinema e non è facile, per uno scrittore o sceneggiatore, essere originale o inventare qualcosa al di fuori del solito schema.



Il regista ci prova con una narrazione per nulla lineare alla cui proiezione lo spettatore viene obbligato a prestare la massima attenzione per rimettere continuamente in ordine la logica temporale e dare quindi un senso uniforme alla storia d’amore tra due protagonisti. Non nascondo che, come è prevedibile, inizialmente si resti spiazzati dato che la prima sequenza veramente importante – dopo una introduzione utile a spiegarci le due passioni della protagonista, che è una giovane chef di cucina ricercata che ama fare jogging – è quella che si svolge nello studio di una oncologa che fornisce la diagnosi che la coppia non avrebbe mai voluto ascoltare: il cancro alle ovaie di lei, già curato, operato e rimesso, è tornato. La recidiva non ha tardato a farsi viva ed ora la giovane donna dovrebbe ricominciare con le cure di chemioterapia.



Nel frattempo aveva potuto concepire e partorire una bella bimba, ma ora il calvario deve essere ripercorso e il tempo che rimane non è lungo. In questi casi non serve la gentilezza, la comprensione della dottoressa, perché l’incoraggiamento, se non si vuole affrontare un nuovo trattamento, di poter vivere da sei a otto mesi “fantastici” non è sufficiente a tenere su il morale. O si accetta di lottare con i farmaci o si continua sperando durare il più a lungo possibile.



La diagnosi, in pratica, è devastante: lei, Almut (Florence Pugh), che si è recata nello studio medico con il compagno Tobias (Andrew Garfield) ha così scoperto che il suo cancro è tornato, ponendola di fronte a una scelta impossibile: vivere intensamente per i mesi diagnosticati o affrontare un anno di cure debilitanti con poche garanzie. Da qui, la narrazione si sviluppa su più linee temporali, alternando momenti di gioia e dolore, dalla nascita della loro figlia alla scoperta della malattia, passando per il loro primo incontro, avvenuto in modo del tutto casuale, e ai successi culinari.



È davvero singolare la maniera in cui i due si sono conosciuti. Infatti, Tobias, che di professione collabora con la Weetabix, una ditta che produce cereali per la colazione, uscendo dalla camera d’albergo per acquistare una penna per firmare immediatamente e senza indugi i documenti del divorzio dalla moglie, viene investito dall’auto condotta da Almut, un ex pattinatrice artistica che ora è una promettente chef, tanto da concorrere per la nazionale inglese ad un importante concorso internazionale. In ospedale hanno modo di conoscersi ed iniziare una inaspettata relazione che parte bene e diventa bellissima, fino al punto di iniziare a convivere. In seguito, tra andate e ritorni temporali, a causa dei quali lo spettatore ha bisogno di mettere assieme i mattoncini di questo domino frammentato, il vero amore esplode e la convivenza è felice, interrotta emotivamente dalle notizie della recidiva della grave malattia.



Da questo momento si può affermare che inizia per davvero il film di Crowley, che non vuole raccontare la solita storia d’amore flagellata dal dolore (non è il caso di Love Story, insomma) ma vuole affrontare la vicenda dal punto di vista del miglior utilizzo del tempo a disposizione per godere la vita di una coppia felice e in sintonia, con la presenza di una figlia a cui Almut non vuole lasciare solo il ricordo di una mamma affettuosa ma di una persona che ha saputo affermarsi nel campo professionale, che sia ricordata, quindi, anche per altro. Tutto ciò con la perplessità iniziale di Tobias che non trovava logica questa volontà della compagna quando invece poteva dedicarsi completamente alle cure per tentare di guarire, ma che poi comprende pienamente e la asseconda.



Due le sequenze abbastanza particolari che il regista organizza: quella del prestigioso concorso di cucina Bocuse d’Or in cui Almut porta alcune sue ricercate ricette con l’aiuto della fidata Jade (Lee Braithwaite) e del suo commis Simon (Adam James), e quella del parto spericolato nel bagno di una stazione di servizio, una scena palpitante tra l’assurdo e il comico, per fortuna terminato con successo. Siamo di fronte ad una commedia romantica fuori dagli schemi e dalle regole del genere, che parla d’amore destinato a sfidare il tempo e le convenzioni, a trovare la propria strada tra minacce e ostacoli, a restituire il senso di una intera esistenza. Parole sicuramente retoriche ma che non inficiano il tentativo del regista di tenersi lontano dal cliché del genere strappalacrime o di facile conquista. Prova ne è la conformazione del montaggio temporale. Anche perché risulta un film che non si limita a raccontare una storia d’amore, ma invita il pubblico a riflettere sulla natura effimera del tempo e sull’importanza di vivere ogni istante con pienezza. Non c’è, in pratica, quella pornografia del dolore che ammanta le nostre reti televisive pomeridiane. Al contrario, riesce a bilanciare momenti di leggerezza con quelli più drammatici, creando un ritratto realistico di una relazione che affronta le sfide della vita con coraggio e vulnerabilità.



In ogni caso non si vola altissimo, diciamo che è un buon film, sufficiente per essere guardato, però con una importante annotazione che spinge ad almeno mezzo voto in più: i due interpreti. Florence Pugh e Andrew Garfield offrono interpretazioni eccellenti, pari alla loro fama, dando vita a una coppia credibile e profondamente umana. La chimica tra i due protagonisti è palpabile, e il loro viaggio emotivo è reso ancora più intenso dalla regia sensibile di John Crowley e dalla sceneggiatura di Nick Payne, che evita il melodramma e punta su una rappresentazione autentica dell’amore e della perdita. Pur se in un film che non sarà certo ricordato negli annali, i due attori si impegnano come se servisse per vincere un premio importante. Lui è ormai un attore maturo e qui ne ammiro la misura, la precisione, la tranquillità di come affronta il personaggio. Di lei devo smettere di scriverne perché potrei sembrare uno stalker, tanto mi piace (anche) come sa affrontare tutti i ruoli, drammatici o d’azione che siano, con la sicurezza della professionista navigata. Ha ormai un fascino ed un carisma che solo qualche anno fa nessuno avrebbe pronosticato (tranne io). Sono bravissimi entrambi e sanno alzare il livello del film.



Grazie a loro e alle due interpretazioni magistrali che sanno offrire, il film diventa una celebrazione dell’amore, ma anche del tempo e delle scelte che definiscono la nostra esistenza, di ciò che affrontiamo tutti nel nostro piccolo, dalle minime alle grandi decisioni. Se poi queste riguardano argomenti di malattie molto serie, si capisce la gravità e l’importanza di scelte dolorose che vanno prese. Come dice il titolo, viviamo il tempo, quello che c’è, quello che abbiamo a disposizione e dobbiamo sfruttarlo per le cose importanti. Mai sprecarlo. Almut e Tobias c’hanno provato e le scene finali, con la piccoletta di casa che impara a rompere le uova fresche come la mamma e con il cagnolino previsto come da promessa, ebbene, la vita va avanti. Deve.



 
 
 

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Il Cinema secondo me,

michemar

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